Si riportano qui gli articoli ungarettiani riguardanti Le Puglie, pubblicati nelle pp. 325-79 del Deserto e dopo, Milano, Mondadori, 1961 (volume da molti anni esaurito, e di cui si auspica la pronta ristampa da parte dell'editore) nei quali, accanto alla "rivisitazione ed illuminazione" dei monumenti e dei paesaggi pugliesi, in particolare della Capitanata, viene fatto rivivere per forza di fantasia il grande Federico II, e ciò rappresenta un ulteriore straordinario omaggio al grande imperatore, a conclusione dell'anno federiciano. Un altro personaggio, più vicino ai giorni nostri, viene ricordato dal poeta: Gian Battista Gifuni (Lucera 1891-1977), uno dei più competenti ed appassionati bibliotecari pugliesi, che seppe potenziare e valorizzare la biblioteca civica "R. Bonghi" di Lucera, di cui fu per molti anni il direttore.
Le prose pugliesi di Ungaretti videro per la prima volta la luce come articoli della "Gazzetta del Popolo" con titoli diversi da quelli proposti nel volume, dei quali si dà il raffronto:
1) Foggia / Fontane e Chiese, "Gazzetta del Popolo", Torino, 20 febbraio 1934, ripreso in "Il Gazzettino", Foggia, 24 febbraio 1934 (in volume col titolo Il Tavoliere);
2) Il Gargano favoloso, ovvero la giovane maternità, "Gazzetta del Popolo", Torino, 6 marzo 1934 (in volume col titolo La giovine maternità);
3) Pasqua in Capitanata / L'angelo nella caverna, "Gazzetta del Popolo", Torino, 1° aprile 1934 (in volume: Pasqua);
4) Lucera, città di Santa Maria, "Gazzetta del Popolo", Torino, 15 maggio 1934 (in volume: Lucera, città di Santa Maria);
5) Lucera dei Saraceni, "Gazzetta del Popolo", Torino, 5 giugno 1934 (in volume: Lucera dei Saraceni);
6) Appunti per una poesia di viaggio da Foggia a Venosa / Il piano delle fosse, "Gazzetta del Popolo", Torino, 22 agosto 1934 (geminato in volume nelle due prose: Da Foggia a Venosa ed Alle fonti dell'Acquedotto);
7) Alle sorgenti dell'acquedotto pugliese, "Gazzetta del Popolo", Torino, 9 settembre 1934 (in volume: L'Acquedotto).
Per completare il panorama ungarettiano della Puglia, si presentano due "composizioni" pubblicate dal poeta nel numero del 2 maggio 1946 della "Fiera Letteraria":
ACQUEFORTI
I.
Si sappia bene, vuole il sole, che questo lungo giorno è tutto quanto la sua preda. D'un fulgore polveroso investendo la vecchia croce sulla pietra ulcerata non si stancherà più di renderle più lievi, tra i due bracci di ferro, martello e lancia, chiodi e tenaglia.
Già ha fulminato la seconda rondine.
Ma prima delle sette, e a avemmaria suonata, la sua autorità appena si denota, ore sempre accoglievoli, e adagio ne lima lo spazio. Le ombre che vi rinchiude, pallide bruscamente o subitaneamente rosse, non possono essere che i pensieri d'un giovane passante innamorato.
Alle sette ha finito di coprire ogni cosa di deserto, salvo il rantolo d'una bestia errante che, di tanto in tanto, a un minimo accenno al fiuto, di vaporosità, tuffa e ritrae, rimasta ingenua, delusa il muso e, non mai disperando, può a mezzogiorno ancora farsi percepire, fitta in sassosità dell'aria che, come nei secoli accade se si casca, dal cielo incenerito ruzzolano, non cadendo.
Le quattordici, il luogo desolato si commuta in burroni di calce dove, pazza alla fine, va colla lingua fuori la bestia moltiplicandosi, branco forse di capre.
Poi, tra altre ore passate, il sole tetro colle pelose rampe delle tarantole, stupito per la cecità perduta incomincia a distinguersi dai campi.
Lucera, luglio 1934
II.
Deposto dal torrente c'è un macigno
Ancora morso dalla furia
Della sua nascita di fuoco.
Non pecca in bilico sul baratro
Se non con l'emigrare della luce
Muovendo ombre alle case
Fermate sulla frana.
Attinto il vivere segreto
Col sonno della valle non si sperde
E dalle cicatrici ottenebrate
Isola lo spavento e ingigantisce.
Venosa, agosto 1934
La datazione e la tematica delle due composizioni rimandano alle prose pugliesi, ed, inoltre, la seconda "acquaforte" compariva già, con alcune varianti, nell'articolo Appunti per una poesia di viaggio da Foggia a Venosa / Il piano delle fosse (e poi verrà accolta nel Deserto e dopo).
Le due "acqueforti", con ulteriori modifiche, saranno poi pubblicate nel Povero nella città, Milano, Edizioni della Meridiana, 1949, con i titoli mutati: Calitri, e Il Tavoliere di Luglio, e quest'ultima farà parte del corpus di Tutte le poesie, nella sezione Altre poesie ritrovate, ancora con un cambiamento del titolo (Preda sua) e con notevoli varianti, esaminate con acume interpretativo da Carlo Ossola nel suo fondamentale libro sul poeta: Giuseppe Ungaretti, Milano, Mursia, 1975, 2 ed. 1982, pp. 467-79.
Foggia, il 20 Febbraio 1934
IL TAVOLIERE
Fontane
Non saprei dirvi dove potreste trovare una cosa più sorprendente e commovente, e augurale, delle tante fontane che s'incontrano oggi fra le palme, arrivando a Foggia. Foggia e le sue fontane! Non è quasi come dire un Sahara diventato Tivoli?
L'acquedotto non c'era. Finalmente questi Pugliesi a furia di sperare e di gridare avevano ottenuto che fosse progettato e s'incominciasse a costruire. Questo lavoro da Romani era stato intrapreso: l'uomo, così forte, come dicono i santi, perché l'unico fra gli esseri viventi a sapersi debole, aveva raccolto e alzato nelle sue povere braccia un fiume, l'aveva con una grazia mitica voltato dall'altra parte del monte alla fine, sì, c'era l'acquedotto; ma in mezzo ai litigi andava in malora. Alcuni tratti di diramazione, sì, erano arrivati sino alla Capitanata; ma chi credeva più che dovessero portarci l'acqua? Ed ecco che negli abitati ora è arrivata, l'acqua e le fognature, l'acqua e l'avvenire. Ed ecco che antiche città hanno ritrovato una furia di sviluppo così lieta come se ora appena fossero state fondate.
* * *
Fontane monumentali! Certo in tutta la Puglia l'acqua potabile ha un valore di miracolo, e c'erano nella regione zone più secche, tutto sasso; ma dove più amabile mi parrà la voce della volontà, se non in quest'acqua ultima arrivata? Spezzando la luce del sole, è la più festosa di tutte.
* * *
L'amante del sole, l'hanno chiamata i poeti. Egli, il sole, la copre di gioie, come s'è visto. Non solo, e subito mi viene incontro l'altro suo simbolo: il fulgore d'uno scheletro, nell'infinito. Quale merito ci sarebbe altrimenti ad addomesticarlo? Sarà perché sono mezzo Affricano, e perché le immagini rimaste impresse da ragazzo sono sempre le più vive, non so immaginarlo se non furente e trionfante su qualche cosa d'annullato. Mi commuoverebbe altrimenti così a fondo, un sole reso gentile? Voglio dire che anche qui ha regno il sole autentico, il sole belva. Si sente dal polverone, fatti appena due passi fuori. Penso con nostalgia che dev'essere uno spettacolo inaudito qui vederlo d'estate, quand'è la sua ora, e va, nel colmo della forza, tramutando il sasso nel guizzare di lacerti.
Non c'è un rigagnolo, non c'è un albero. La pianura s'apre come un mare.
Vorrei qui vederlo nel suo sfogo immenso, ondeggiare coll'alito tormentoso del favonio sopra il grano impazzito.
È il mio sole, creatore di solitudine; e, in essa, i belati che di questi mesi vagano, ne rendono troppo serale l'infinito; incrinato appena dalla strada che porta al mare.
* * *
E a notte, ancora solo le pecore saranno a muovere le ombre, ammucchiate sotto i portici d'una masseria sperduta.
Santa Maria Maggiore Sipontina
Poi dalla solitudine si sprigiona una colonnetta, e le fanno seguito a pochi passi, su leoni, le colonne che, fra le scure sopracciglia di archi ciechi, reggono in una facciata deserta il ricco portale di Santa Maria Maggiore di Siponto.
Questa è dunque quell'arte solenne che dicono pisana, che un giorno a Lucca dolcemente mi svelò la Patria, che mette nel silenzio d'una pagina d'orazioni il rilievo prezioso dell'iniziale miniata.
Non me ne intendo, ma non stupirei se questa cattedrale in mezzo al prato fosse davvero il primo esempio del costruire monastico e guerriero nel quale il Medioevo si provò a fondere le esperienze del suo rincorrere la visione del mondo, dall'innocente epica dei Mari del Nord alle erudite voluttà della svelta Persia. La nascita d'un'architettura significa il principio d'una chiarezza spirituale e d'una volontà vittoriosa. Perché nell'era cristiana non dovrebbe essere stata per prima questa terra, questo ponte dei Crociati, a immaginare saldamente, nella pietra murata e ornata, un'unità fra Occidente e Oriente? Sono le cose che mi commuovono di più, come di vedere, dopo la spedizione d'Alessandro, il canone di Fidia insinuarsi nella scultura indiana di 23 secoli fa.
Perché questa regione pietrosa non dovrebbe essere una madre d'architettura? È venuta su dal tormento della pietra: dalla pietra, vittoria della forma sopra un immemorabile caos. Prolifica d'ogni sorta di pietre; dura, macerata, terra della sete: ci vorrebbero forse altri eccitamenti per inventare una forma?
Nella sua desolata vecchiaia, Santa Maria Sipontina impartisce difatti oggi ancora la lezione più moderna. Dal faticoso svolgersi di due quadrati, guardate come al terzo la sua pianta ottiene che, sovrapponendosi di volo, 4 pilatri e 4 ogive e 4 muri, e (avete indovinato!) «quattro» colonne compongano alla cupola la salita potente d'un doppio spazio di cubi. Più cubisti di così Non c'è da ridere: semplicità e ordine apriranno sempre le vie del sogno.
* * *
Siamo usciti.
I passi del sagrestano sono silenziosi come se andasse a piedi nudi.
Per uno strano mimetismo anche i nostri passi si sono fatti impercettibili.
Siamo scomparsi.
* * *
Al poco chiaro che può mandare un sanguigno di colonne, ci siamo ritrovati, sorpresi.
Scorgiamo all'altare in fondo, in un cavo d'abside, gli occhi sbarrati d'una statua di legno dipinto. Sono gli enormi occhi bizantini, dimentichi del tempo. Solo Picasso potrebbe dirci perché i Bizantini sono così vicini ai selvaggi. Ripensavo cogli occhi fissi a quello sguardo insensato, laggiù allo Scima che per occhi mette all'idolo pezzetti di specchio. Sarà mai rappresentata meglio l'insensibilità d'una vista eterna davanti al passare?
Sparse come guardie, le gentili colonne e sono (bravi!) 4x4 per il loro regolare i giuochi ora evidenti della volta, via via che avanziamo sembrano dividere il buio addirittura a tende, a scostarle.
Vediamo anche quattro colonnoni; ma ci devono stare per prolungare e fortificare da questa cripta, i pilastri della chiesa di sopra; cercano di non disturbare e ritraggono più che possono nell'ombra la loro corpulenza.
In tali penombre, presso la statua di legno arrampicandosi negli angoli, appariscono apparecchi ortopedici, grucce a mucchi, e vestitucci di tulle polverosi, inverosimili sulla durezza e la freddezza della pietra.
* * *
A questo punto scopriamo appesi al muro è uno scoppio tutto un fiorire di quadri su rame.
Di solito il popolo racconta bene, è la sua facoltà, e ne è prova questo genere di quadretti di voto. Ma questa volta le immagini hanno una vivacità straordinaria: sia che si faccia vedere uno che con una tavola sotto il braccio si getti dal piroscafo squarciato da un siluro, e riesca a raggiungere riva coll'aiuto di quella tavola; o si discorra d'un bambino che, caduto sotto cavalli impennati, attaccati ad un carro pesantissimo, passato il carro, mentre gli astanti urlano ancora disperati, si alzi e sorrida; ovvero s'indichi un albero schiantato dal fulmine mentre lo potano, e il potatore resti a cavallo d'un ramo della mezza pianta rimasta ritta, e guardi in giro come per dare i numeri al lotto; ecc. ecc. Il dramma è nel mare e nella nave, è nei cavalli impennati e negli astanti, è nell'albero e nel fulmine; non è mai in chi si salva. Ci sia o meno la volontà, c'è sempre il miracolo, c'è sempre la fede che rasserena.
* * *
Stanno nella polvere e nel grigio, lì abbandonati i ricordi della sofferenza. L'uomo, si diceva incominciando, è debole e lo sa, e perché lo sa, per miracolo divino o per volontà, che è miracolo umano e di solito le due forze si alleano la sua condizione, e la sua dignità, è di superarsi. Per questo quando s'è salvato come ha visto l'artista è al di là di sé, al di là del dramma, egli è valore spirituale, e il dramma langue e perisce nella natura delle cose.
* * *
Allora il sotterraneo mi s'è riempito di pellegrini.
Non c'era nessuno.
C'erano impronte di piedi, impronte di mani, graffi sulla pietra, e un nome dentro ciascuna mano o ciascun piede. Pellegrini che erano arrivati qui cantando, anzi grigando: a piedi scalzi con il loro passo rapido, anzi impetuoso com'è la fede. E finalmente il loro piede aveva calcato il suolo sacro, la loro mano aveva toccato la pietra benedetta. Ne resti memoria per sempre!
* * *
Sentirò per tutto questo mio correre dietro l'acqua, in su e in giù, dal Gargano a Caposele, il passo del pellegrino. E se non ne sentirò il passo, ne vedrò la traccia.
* * *
Siamo tornati al prato. È il tocco. Ora si vede meglio come qui il sole detesti l'inverno. Ora ha potuto finire di aprirgli direbbe Leonardo Sinisgalli, un giovane poeta delle parti d'Orazio, quasi di queste parti
la mano superba e la noia del giorno
ed esso, vinto, può prendere, come un presagio di primavera,
un calore carnale.
Manfredonia, il 6 Marzo 1934
LA GIOVINE MATERNITÀ
Là fu Siponto
Siponto non è più che un nome musicale. Un Diomede laureato e il giavellotto fendente l'aria sopra la fuga d'un cinghiale: la celebrazione del fondatore d'una città in maremma, nel suono d'oro d'una moneta.
Per tutta la riviera adriatica come è del Tirreno, Enea corre voce di questo Diomede dalla barba fiorita, e sono indecisi perfino quelli di Comacchio se vantarsi di discendere da lui o da Noè.
La moneta è visibile nei musei. Ma perché il mito che porta i due rivali omerici a prosperare sui due lati della terra italica, non dovrebbe essere verità? È come una prima figura di quel mistero che avvierà sempre ogni sogno epico a sciogliere i suoi drammi sotto la chiarezza del nostro cielo.
Un mucchio di monete nelle vetrine: Diomede e la ragazza con la corona di spighe, e l'uomo che rovescia un leone. Più alcune anfore piantate bene: memorie di braccia che, alzandosi per trattenere un peso nell'armonia rigogliosa dei passi, facevano impazzire. È tutta qui, Siponto?
* * *
Ci sarebbe anche la cattedrale di cui si parlava l'altro giorno. E una città, finché una sua pietra sta ancora ritta, non può dirsi scomparsa e meta solo della memoria.
Ma la speranza, perennemente attuale, in un certo senso ha strappato Santa Maria Maggiore al suo luogo e al suo tempo. Gridando aiuto, si chiama un generoso. Dov'è, che importa? E colla divinità che verrà mai a fare la storia? Eh, lo so che non si ha storia senza l'arrampicarsi verso lassù come un'edera, delle nostre passioni. E che, dopo tutto, all'uomo non resta che un pugno di storia.
Che verrà mai a fare la storia? Questa Madonna dai grandi occhi non ha se non ricovero palese, fra gli unici muri di una metropoli rimasti ritti. Per miglia in giro, varcando solitudini, dal mare e dalla corona dei monti tutto un popolo nei suoi dolori la sogna. Una chiesa non ha bisogno di dominare visibilmente un pigiarsi d'abitati per essere non il segno superstite d'una rovina, ma un nucleo vivo d'umanità.
Anche come semplice lavorata pietra, è così poco ormai Siponto, decrepita pietra com'è. L'arte non la distacca più dalla natura. È, come la stessa Siponto, terreno anch'essa, stravaganza del terreno.
Non è quasi più nemmeno una memoria anche l'acqua malata che a un re animoso fece ordinare l'esodo totale degli abitanti e fondare a qualche chilometro più in là, la città cui dette il nome. Ma forse la malaria non fu che un pretesto, e la necessità d'avere braccia per la costruzione d'un porto potente consigliò invece il guerriero.
La memoria delle Paludi Sipontine stanno disperdendola le idrovore. Non ne resta ormai che un raro barlume viola nel vento.
E in linea diritta davanti alla fu Siponto, l'arco di Manfredonia si volta giusto nel punto dove, pieno di freschezza e di appetito per l'abbondanza di seppie, lo sguardo dell'acqua marina si fa moro come quello di gitane.
Azione e fede
Torri, torri che a volte emergono da fondamenta marine e acquistano bellezza nel variare perenne dei riflessi, torri che si mantengono, nonostante l'altezza, d'una rotondità cospicua, torri, così carnali, malinconiche sotto i colpi della luce, torri che a volte armano una cattedrale ai quattro venti, guerra e preghiera, azione e fede alleate e fuse, ancora e sempre, è ciò che qui non ha paura del tempo. È il modo cordiale, diremmo, di celebrazione: è celebrare la divinità nell'uomo, cioè soltanto un momento umano particolarmente intenso, e quella luce che non ci abbandona mai e che vediamo così bene quando ci facciamo piccini piccini per amore e nei nostri momenti di disperazione.
Un Italiano nella sua arte, anche parlando di morte, celebrerà sempre la vita. Se sono occhi, non avranno l'esorbitata fissità dell'icona, né tanto meno saranno quelli ghiacci e ancora più tremendi del feticcio sudanese. Noi non abbiamo mai pensato d'annientare la carriera del tempo immaginando, come gli Egiziani, una lancetta che ne avrebbe segnato senza fine il vano ripetersi. È un'idea di gente che il deserto circonda. Non mi sono mai meravigliato vivendo laggiù, che quegli Antichi pensassero che il tempo sia vinto dal tempo stesso, e cioè, il tempo essendo una misura, sia vinto dalla sua misura. Meridiane colossali, piramidi, una saetta d'ombra che i secoli non denaturano. E l'eterno? Morte! Mummie nell'orrore, nella cecità delle fosse di quelle piramidi.
Per un Italiano poesia invece anche se un'idea come quella degli Egiziani gli servirà da termine di rapporto sarà l'illusione di perpetuare l'attimo che ci ha rapito il cuore, di perpetuare la vita d'un nostro attimo: ecco dove cerca pietà e forza e il divino, la nostra arte.
La casa azzurra e gialla
Con qualche torre che ci seguita, bruscamente entriamo in una selva di fichidindia Il ficodindia non è una rarità. L'abbiamo incontrato tante volte a fare da siepe, o addossato a un rialzo di macerie, o come un'elefantiasi contendere lo spazio nei campi d'agrumi. Ma un intrico assoluto di questo verde idropico che tolga il respiro così a lungo, fino ai piedi del monte, può essere una sorpresa. Con che gioia uno di quegli «ahuan» che mangiano il vetro e i serpenti entrerebbe qui dentro e divorerebbe le foglie spinose, che evocano perfino la roccia nella loro mostruosità. Ma, sarà per un dolce venticello che muove quella pesantezza, ora tutte quelle foglie, quelle enormi orecchie sorde, sembrano essere salite sul naso di pagliacci equilibristi.
E alle radici del Gargano, mentre la selva grottesca continua la sua risatina e ora vi ride alle spalle, e voi tornate invece a pensare a muri merlati nascenti dal mare, una casa azzurra e gialla vi accoglie sola sola.
Un altro miracolo. Nel progetto di massima del 1902 per la distribuzione dell'acqua non erano compresi i comuni di Montesantangelo. E se l'acqua non riusciva mai ad arrivare dove avevano allora stabilito che dovesse arrivare, come avrebbe fatto ad arrivare un giorno lassù in cima? Nel 1925 si dà ordine che si compili un progetto di massima perché l'acqua vada fino lassù. Nel 1928 vengono compilati altri progetti esecutivi e i lavori vengono senz'altro rapidamente eseguiti.
Non era una cosa facile. Sono stati risolti ardui problemi d'ingegneria che si presentavano per la prima volta: con semplicità, come sempre quando si fa sul serio.
Ed ecco che, nella casa gialla ed azzurra, ora si muove l'impianto di sollevamento: sono pompe a stantuffo accoppiate a motori Diesel: sono le braccia e i polmoni d'acciaio di migliaia di ciclopi che mandano, senza affannarsi, silenziosamente, come nulla fosse, dallo spazio di poche decine di metri, una quarantina di litri d'acqua al secondo a un'altezza di quasi mille metri. Tutto questo organismo nero fa l'effetto di un'enorme dissimulata violenza che basta una mano d'uomo a dominare e a regolare senza sforzo.
Conquista del sasso
Il Gargano è il monte più vario che si possa immaginare. Ha nel suo cuore la Foresta Umbra, con faggi e cerri che hanno 50 metri d'altezza e un fusto d'una bracciata di 5 metri, e l'età di Matusalemme; con abeti, aceri, tassi; con un rigoglio, un colore, l'idea che le stagioni si siano incantate in sull'ora di sera; con caprioli, lepri, volpi che vi scappano di fra i piedi; con ogni gorgheggio, gemito, pigolìo d'uccelli
Ma queste pendici che vanno giù verso Manfredonia sono tutto sasso. Salendo da questo lato verso Montesantangelo la vegetazione è tutt'altro che facile. Ma questa è la giornata degli spettacoli commoventi. Giù, vedete, si estende a perdita d'occhio la pianura: terra, terra. E con tanta terra a due passi, guardate questi montanari: vanno a cercare la loro terra avara col cucchiaino; e quando trovano nel sasso un interstizio: giù quel granellino di terra. Sono arrivati così, conquistando un millimetro dopo l'altro, a rendere fruttuoso anche questo versante, e ora è tutto diviso a terrazze che fanno l'effetto di snodarsi sul suo dorso come lentissimi bruchi.
Mi dice uno che sta zappando:
«Avresti dovuto vedere quest'estate! Il nostro grano era alto così! Il più bello di tutta la Capitanata!»
Mi dava del tu, davvero era un Antico!
La tomba di Rotari
Ora ci appare Montesantangelo. Le sue case, per le porte sormontate dalla finestra a balconcino, a questa distanza le diresti una greca che coroni il monte.
Arrivati a Montesantangelo, correte a vedere la cosiddetta tomba di Rotari. Un'architettura degna di Ispahan! È un monumento misterioso. All'esterno s'alza come una mole che faccia da testa al monte, e pure portando i segni netti d'un'arte molto avanzata, non riesce nel suo ritmo a dissimulare non so quale violenza caotica della natura ancora vergine.
Misterioso monumento! Il suo nome la dichiara Tomba di Re Rotari longobardo. Ma, pare, perché si lesse male una scritta che diceva "Rodelgrimi". Quante volte i dotti ce l'hanno data a bere, leggendo male! Il popolo la chiama la Tomba di San Pietro perché attigua alla chiesa di questo nome. Chi la ritiene un campanile, chi un "sontuoso tipico battistero del XII secolo", chi tomba e torre di vedetta da principio e poi battistero e chiesa
Possono avere tutti ragione. Ma come pensa il prof. Giovanni Tancredi che vuole essermi guida gentile e che questo monumento ha studiato con amore in tutti i suoi particolari, mettendone alcuni egli stessi in luce, quanto alla data di costruzione si dovrebbe risalire alla prima metà del XII secolo.
Quanto all'essere tomba, anche a non credere agli esametri incisi che dicono:
Incola Montani Parmensis Prole Pagani
Et Montis Natus Rodelgrimi Vocitatus
Hanc Fieri Tumbam Jusserunt Hi Duo Pulchram
Vale a dire:
Un abitatore del monte di origine parmense, Pagano,
Ed uno nativo di Monte, chiamato Rodelgrimi,
Fecero fare questa bella tomba.
Perché andare a immaginare che tumba, volendo dire volta o cupola, non potrebbe essere una tomba?
Tomba la dice il popolo, tomba la dichiarava la leggenda dotta. E tomba sia, per il fortunato visitatore che in essa si sprofonda.
Vita trionfante
Il suo colore interno è d'un rosa secco. Un colore che verso l'alto diventa d'una accalorata luce diffusa.
Si ha veramente l'impressione d'essere scesi in una profondità di tomba, circondati da visioni infernali, come quel potente groviglio che rappresenta l'avarizia tormentata. Ma alzando gli occhi in questo luogo di sogno, ecco un primo conforto: fra l'accidia e la lussuria, ecco la maternità, ecco la vita trionfante! Teniamo gli occhi alti, seguiamo gli spazi che salendo prendono a gradi una forma più raccolta, arriviamo alla sommità, lassù, lassù l'occhio si fa piccolo per arrivare a vedere e vedremo un'aria soprannaturale, contenuta come in un guscio d'uovo trasparente che una freschezza illumina
Molto probabilmente questa tomba sarà anche un battistero. Non è il battesimo un sacramento dei morti alla grazia? E non li risuscita?
E sembra che ora possano essere sfidate tutte le pesanti leggi che tengono i nostri passi giù. Si è veramente morti alla materia, è veramente un nascere allo spirito. Non conta più il nostro peso a questo punto dell'aggirante salita. Conta una felicità ritmica, conta una divina precisione, è superato e oltrepassato l'inutile, conta la grazia.
Com'è pura in quest'aria di sogno, la giovine maternità
San Michele del Gargano, il 1° Aprile 1934
PASQUA
L'angelo nella caverna
Dall'alto, così muoversi a perdita d'occhio, non avevo mai visto il grano giovane. Soggiace appena al suo alito in fiore; ma è un alito immenso, un alito di felicità finalmente palese, davvero da terra risorta. Un alito di Pasqua, davvero di terra finalmente di luce. E non lo definisce luce la sua incertezza stessa? Quell'essere ancora il tremito d'un calore libero da poco lungo lo stelo dalla zolla, d'un calore che ancora tralasciare non può, nello scorrere oltre la tenerezza dell'erba, qualche ombra di violenza segreta?
Calando dai monti portato all'infinito in palma di mano, è stamani il Tavoliere d'una freschezza e d'una felicità
Ma ecco che una rivolta della strada ce lo nasconde.
* * *
Pasqua! Li sentite gli agnellini? Siamo nel paese del grano e delle greggi.
* * *
Un giorno un'idea, e conteneva in sé fuse tante altre forme, da una proda bizantina prese il volo e, chiamatasi San Michele Arcangelo, venne a posarsi su questo monte. Gli sono venute dietro tutte quelle case bianche che vedete, che s'arrampicano l'una dietro l'altra piene di 20.000 Cristiani, sormontate da fitti comignoli lunghi lunghi, che formano una strana roccia con mille feritoine per farci il nido.
Gli è venuto dietro quel campanile angioino che alza all'angolo d'un piazzale, chiuso dentro un'inferriata, ma non è feroce i suoi 25 metri, come un enorme cero pasquale, imitando il poderoso e grazioso slancio delle torri ottagonali di Castel del Monte. Ha persino un portale della medesima breccia picchiettata di sangue del monumento svevo.
Dal quinto secolo in qua, gli è venuta dietro questa città di Montesantangelo, brulicante a 900 metri sul Gargano.
* * *
Il suddetto piazzale noi diremmo corte; atrio esterno, direbbe il saccente: culonne, dice meglio di tutti la gente di qui, perché una volta c'era un elce secolare nel mezzo. La culonne è fatta per li sammecalere da San Michele venditori ai loro banchi di statue del loro santo, da essi stessi lavorate in alabastro che pare allume. Sono due dinastie di artigiani: gli Iasio e i Parla, e dal tempo dei Re aragonesi hanno il privilegio di fare e vendere le statue.
Circolano anche nella culonne gridi cristallini di montanine: offrono li mazzaredde, e con li mazzaredde ciuffi di pino di Aleppo e nastri e tutto l'occorrente perché il pellegrino non se ne torni a casa senza il suo bordone. Potrà acquistare anche schegge di calcare da portarsi al collo o da attaccarsi al cappello, e se avesse fame, li fascinedde, l'ostia chiene, li pupratidde, carrube, croccanti, ciambelle di cacio
* * *
Apparve in origine l'angelo all'uomo, dicono, impugnando una spada di sole che ci chiuse l'Eden. Gli angeli furono da allora le stelle, inaccessibili misure che guidavano i passi erranti nel deserto. Compresa la stella che condusse alla grotta i Magi, furono nature pure, assoluta fissità, segnali sicuri, operai adibiti all'eterna creazione del mondo, api mediatrici fra la divina potenza e l'umano fallire, vaghezza o terribilità balenanti da uno stato di beatitudine perduto, bramato, promesso.
Erano i numeri dello strologare caldeo, e già erano i messi biblici che balenando gli occhi umani non disdegnavano prendere sembianze umane. E noi, dalle parti nostre, pronti non eravamo già a togliere le ali a Mercurio; a Ercole, il drago e la forza; a Apollo, la perfezione d'un corpo che dirada la notte - per cedere a Michele ogni cosa e farne, quando avrà da piombare sugli idoli, una famigliare immagine?
* * *
Qui per la prima volta apparve chiaro in Occidente che il Cristianesimo poteva vantarsi d'avere schiacciato il drago, il quale era tutte le altre fedi: esse avevano dovuto trasmettere all'Angelo ogni loro speculazione e ogni loro seduzione.
L'apparizione garganica abbagliò tutta l'Europa. Perché stupirsi che i Normanni, tornando dai Luoghi Santi, salissero il Monte per acclamarla? E perché quindi stupirsi che sino dal settimo secolo, a imitazione di questo San Michele di Puglia, il San Michele a Pericolo del Mare sul Monte Tomba nella Neustria, trovasse in un sasso druidico rifugio, stringendo tra i due santuari mistico patto di guerrieri?
* * *
In un angolo della culonne, fra l'incrociarsi dei gridi, c'è un parlottare che solo qualcuno ode. È Melo da Bari che nel 1016 chiede ai Normanni d'aiutarlo a cacciare i Bizantini dalla sua Patria. Ah! qui è nata una cosa da nulla: il Regno delle Due Sicilie, un avvenimento che darà per quasi mille anni un giro diverso alla storia d'Italia e alla storia d'Europa e alla Storia.
* * *
In fondo alla culonne c'è una facciata con due archi che aprono un portico nell'ombra, dove una fata con uno spillo dev'essersi gingillata a ricavare figure e fogliame per due portali ogivali.
Entriamo. Dentro buio ai lati indoviniamo i laboratori delle due tribù de li sammecalere: rappresentano la prima, quattro paia di baffoni scurissimi. Una scalinata ruzzola giù. Udiamo:
Scala sante, pietra sante,
Patre, figliuole e spirite sante
È il lamento di persone che fanno la scala in ginocchio. Pastori che incominciano a giungere prima di tornare ai loro monti, per ringraziare l'Angelo della buona svernagione?
Come Santa Maria Maggiore di Siponto è la chiesa dei pescatori, questa è la chiesa dei pastori. S'è già detto: ogni apparizione d'angeli ci riporta prima di tutto all'infanzia del mondo: patriarchi, armenti, stelle, solitudine, smarrimento: pastori
Non sono più tante migliaia come ai tempi del pascolo forzoso nel Tavoliere; ma quando saranno quassù in gran numero nella prima ottava del prossimo maggio, si vedrà che sono ancora molti, per fortuna nostra. Una nazione che ha ancora di questi cuori semplici, non invecchierà mai.
* * *
La scala va giù, va di qua, va di là, trova un raggiolino di sole, lo perde; s'incontrano nella penombra a ogni pianerottolo: porte murate, altari, tombe In fondo alla scala, finalmente ci siamo. C'è una porta, entriamo: eccoci tornati in pieno giorno in un cortile; su s'affaccia una ringhiera; a sinistra, al nostro fianco, delle arcate chiuse da cancelli: altre tombe, un vero cimitero. In fondo, la facciata con la sua mirabile porta di bronzo eseguita "da mano greca per Pantaleone Amalfitano" nella "regal città di Costantinopoli", nel 1076. Sono, dal punto di vista dell'arte, il tesoro del santuario. Nei 23 riquadri dei 24 che formano le due imposte nel 24° c'è un'iscrizione appaiono figure bislunghe delle quali il bulino ha inciso il contorno, fatto risaltare da un filo d'argento premuto nel cavo. Alle estremità di ogni contorno intarsiato e dentro uno sparpagliamento di piastrine d'argento intagliate, s'irrigidiscono piedi, mani e facce. È un giocherellare sottile e goffo di lucettine sopra una piatta e dura tenebra: non resta di solito molto di più d'una grande tradizione giunta all'ultimo ieratismo della sua decadenza; ma qui è giunta, nel suo tremolare, a quella smemoratezza senile che annuncia la primitività.
Entriamo. Attraversiamo una navata gotica. C'inoltriamo. Ci rinveniamo poi affondati nell'antro. Il luogo è umido, e in mezzo all'oscurità a poco a poco si rivela una statua corazzata d'oro, attorniata da un tremolare di lucette di candele. È l'Angelo! Vicino a me, aguzzando gli occhi, e per via della corazza di latta che portano, vedo che ci sono alcuni bimbi. Stanno in ginocchio con l'elmo di latta in mano, e giocherellano con la spada di latta.
Mi fermo dove l'oscurità è più densa. Ecco, sono bene a contatto ora della natura cruda. Carverna: luogo d'armenti, e d'angeli dunque: luogo d'apparizioni e d'oracoli. Ma forse c'è anche stato in questo cuore della terra un uomo anteriore ai terrori, vicino alla sua origine divina: profetico fantasma di sé, del suo penoso incivilirsi.
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Fantasma, dice un poeta, ed è, nella sua cieca sottomissione a certe contingenze d'ora e di luogo, l'immagine finita d'un tormento che può darsi sia eterno. Può darsi che una vita umana spesa bene, altro non sia se non un'aspirazione a lasciare di sè simile immagine.
Angeli o fantasmi; ma per chi cerca il valore religioso dell'arte, per chi ci crede, quale prova questo tendere a esprimersi dell'uomo in tale modo che, per effetto di poesia, la sua presenza, dipendente da una brevità di vita e da un variare, permanga sciolta dalla sua vita, e da un luogo e da un'ora.
Per gli uni, non essendo loro ancora negata la grazia incantevole, ci sono sempre gli angeli; per gli altri che possono essere solo uomini di buona volontà e conoscere solo la grazia militante, prevarrà l'uomo, quell'uomo che, sulla tela che sogna immortale, non vorrà stampare se non il proprio fantasma.
È quest'ultimo il modo della pietà dell'uomo verso l'uomo: ma, in chi lo pratichi, c'è una fermezza e un'audacia, non so quale grande fondamento morale; c'è, in questo cercare la storia in se stessi, cercando un barlume nella notte del proprio bruciare, quasi ricuperata la originale virtù umana.
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Uscimmo. Già era sera.
La sera dei paesi è data dalle donne che vengono sulla porta di casa, dalla piazza che s'affolla d'uomini, dai ragazzi che s'agitano di più senza che s'oda più il loro chiasso, dall'attesa d'un avvenimento che è, in questo nascere di primavera, già tutto nell'aria, anche più che nei cuori. Ora di rapimento. Ora di tono petrarchesco:
Passa la nave mia colma d'oblio
L'unico modo di rompere il silenzio è di chiudere gli occhi;
E m'è rimasa nel pensier la luce
Lucera, il 15 Maggio 1934
LUCERA, CITTÀ DI SANTA MARIA
Scriveva Gregorovius ricordando la sua entrata a Lucera:
"Ti viene incontro la quiete tutta propria in Italia delle città storiche di provincia. È cosa d'una seduzione che non ha l'uguale nel mondo".
In un delta oblungo, e come sposando il silenzio, il Duomo è fermo su una terra a onde.
Duomo della città di S. Maria. Ma commemora lo scatenamento d'un furore.
La pietra cotta e la cruda, stinte, patinate, penetrate l'una nell'altra, hanno avuto dal tempo un'unità di giallo leggermente ombrato: è una facciata alta, impettita, piallata, orba con quel suo finestrino nel rosone, tagliente, coperta dal tempo di un colore di grido represso.
Ora che l'archeologo può sbucare segreto da una stradicciola e frugare in giro dietro le lenti cogli occhi affamati, si può gettare un'occhiata nei solenni portali settecenteschi di cui la città è ricca, arrivare a quello del Palazzo Ramamondi, di gesso ercolanense, affondato in quinte, e a bell'agio vedere che tutti finiscono in una corte piena di carri, carrette, d'arnesi per lavorare la terra e d'una carrozzella nel mezzo, così decrepita che le mani vi scappano a turarvi gli orecchi per paura che non si metta anche da ferma a cigolare; possiamo incontrare ragazzi del Real Collegio dove fu alunno Salandra, che passeggiando ripassano le lezioni con una serietà di statue; su e giù per la stessa strada, potrete osservare avvocati calmi discutere ore intere e accanto, passando, un prete in orazione può sentirsi come in un chiostro, e alzare appena gli occhi dal breviario per un salutino; ecc.: è questa la quiete?
* * *
Giambattista Gifuni, direttore della Biblioteca Municipale, che m'accompagna e che conosce mirabilmente la storia della sua città per un amore che da secoli hanno da padre in figlio nella sua famiglia, mi fa segno d'avviarci.
Ed ecco per dare il garbo all'abside, che la terra a onde s'è messa a girare come dentro una chiocciola, e i nostri passi con essa; ma presto tutto sembra immutabile e lo stesso colore dell'aria, arrivati come siamo a un punto dove è unico motore l'architettura.
Ora, per l'annodarsi stretto dei contrafforti, la mole fa da sporgenza a sporgenza effetto di galoppare tra altissimi agguati: è un'elegante mole con un nonnulla di calligrafico, pericolosa e anche serena, come s'addice a fabbrica provenzale trecentesca ancora ammaliata d'Oriente, sorta sotto il più largo cielo del mondo sulle rovine fumanti d'una moschea.
Ma appare più di tutto, assediata e presa d'assalto dalle cose così com'è rimasta, nave gonfiata dall'affanno umano, veramente la forza dalla quale nascono o rinascono e vanno alla ventura città. Città di S. Maria!
Ci basterà del resto fare due altri passi ed entrare nel Duomo per vedere gli stessi fantasmi approvare Gifuni d'avere nel suo scritto intorno alle "Origini del ferragosto lucerino", opposto all'Egidi che non tanto la ragione economica quanto la passsione religiosa mosse Carlo II a radunare un esercito e, al comando del "valoroso" Maestro Razionale della Curia Reale Giovanni Pipino da Barletta, spedirlo addosso a Lucera a farvi "macello" dei "tanto arditi et grandi Saracini cani" che la popolavano.
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Entrati in Duomo, il primo fantasma a farsi riconoscere e che or ora, a quell'esterno dell'abside frutto di un'educata violenza, già avremmo potuto immaginare presente è Dante.
Carlo I d'Angiò, Carlo II d'Angiò: il Nasuto, il Ciotto, come Dante li ha crucciato soprannominati per sempre, sono qui nel centro del loro trionfo. Dicono che il Ciotto sia quel giovanotto di marmo dagli occhi pieni di sonnolenza, il cui viso paffuto chiede il grazioso ovale al mento sottile e che giace coi piedi poggiati sui cagnolini in una cappella laggiù in fondo. Era uso tramandare sui cenotafi il più leggiadro aspetto d'uno scomparso? E quindi d'un uomo attempato non doveva rimanere che la memoria del suo corpo giovane? Uso amabile, il che non impedisce alla statua d'essere d'un'esecuzione dozzinale, nonostante il giudizio di Riccardo Bacchelli, il quale, avendo una volta da interpretare in modo penetrante come sa il carattere del Ciotto, le dedicò alcune delle sue frasi ornate.
Opera più originale, o anzi addirittura geniale, è un altro giacente che entrando vedrete alla vostra destra, tenuto in alto da due mensole. Da quel suo vestire che infagotta dall'inguine in su sbuffando alle spalle e in giù fascia, si capisce che è un gentiluomo della seconda metà del Cinquecento. Ma guarda un po' e chissà perché, la gente l'ha voluto Pier delle Vigne. Eppure è gente che qui s'è stabilita al posto dei "Saracini cani", cari e fedeli agli Svevi; e dunque non certo perché tradì Federico che non tradì gli sputano in faccia, lo chiamano "Segnato da Dio!", "Sansone", "Traditore!". O, maltrattandolo, vogliono essi manifestare il loro atavico e cattolicissimo rancore nel medesimo tempo che contro lo scomunicato Federico, e contro i suoi "grandi et arditi Saracini", contro specialmente Pier delle Vigne che fu l'atleta, il Sansone, appunto, dell'Impero, l'uomo dotto che dettava le grandi pagine nella polemica di fuoco con Onorio III, Gregorio IX e Innocenzo IV?
Questa schiettezza d'animo dei Lucerini, quest'ostinazione nell'odio, anche questo è dantesco.
Spostano le mensole, Piero giace sempre più su, cercano colle buone e colle cattive di convincerli che non è educazione; ma uno schizzo ogni tanto, ciac, lo raggiungerà sempre: mirano a quel suo povero naso acciaccato. Statua orrenda nella sua impeccabile eloquenza: è uno scheletro beffardo, uno scheletro vivente: tutta l'amarezza del Seicento
* * *
Gli sputi sono una bella prova dell'errore dell'Egidi.
Ma ce n'è ancora un'altra: siamo entrati in sagrestia e ci fanno vedere alcuni oggetti del tesoro, e il sagrestano alza un vecchio camice di lino, lo alza colle braccia in alto e non basta, sale su una sedia e non basta, sale su una scala: è un camice di quasi tre metri, c'è entrato dentro il fantasma d'un gigante. Appartenne al Beato Vescovo Agostino Cassiota da Traú, il quale era un Domenicano, e non bastava, era uno che, anche senz'essere Domenicano, al solo vederlo si era piccini e si tremava. Fu qui dal 1317 al 1323 per sradicare i resti dell'eresia musulmana. Cómpito per il quale nella mente del popolo è rimasta l'idea che a finire di schiacciare tanto mostro ci voleva Ercole in persona, e un Ercole spietato. Omaggio reso al valore del nemico, valore dunque leggendario, e prova lampante poiché dal sentimento alla fantasia non trova altra via per manifestarsi se non nella leggenda del carattere in prevalenza religioso di tale inimicizia.
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Vollero perfino cambiarle nome. Urlarono i fanatici neo-Lucerini: «Città di Santa Maria!».
Ma è più difficile cambiare di nome che di naso, e Lucera rimase Lucera, come la chiamano le storie antiche di Roma che la segnalano per la sua fedeltà.
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Gifuni torna alla sua biblioteca e mi fermo nel giardino del Municipio.
È un vasto rettangolo che dà strapiombando nell'infinito della pianura. Fra le piante vi sorprende duramente un enorme leone di scavo, un leone romano di bardiglio, steso minaccioso sulle zampe anteriori. Fu trovato nel 1830 insieme a un altro uguale, ma a pezzi, "le cui ossa come dice in un suo quaderno un antenato di Gifuni furono buttate al vento".
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Ora guardo la città nel suo panorama e penso: «L'Egidi non deve avere avuto tutti i torti ragionando come ragionava. L'errore suo fu di non far dipendere mezzi quelli economici nel caso che esamina da ciò ch'è sempre fondamentale negli impulsi umani: la nostra vita morale».
E penso che l'argomento meriterebbe uno svolgimento apposito tanto più che mi permetterebbe di rivedere certe mie riflessioni sull'architettura. E la Lucera dei Saraceni col Federico e il Manfredi rimpianti da Dante non merita forse un articolo? Starò dunque a Lucera coi miei quattro lettori, anche la prossima volta. C'è un'altra memoria di Federico: un segno vivo: non ci sono piccioni qui in piazza; ma, come sulla Leonessa e il Leone, sul campanile si alza il falco, e si ferma sull'aria: ha trovato nelle ali infiniti equilibri
Figli dei figli di quei falchi ch'egli ha fatto venire qui per mettersi in grado di dettare il suo trattato di falconeria?
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Mentre starai per partire, il tempo si guasterà. Apparirà nel cielo un affrettarsi di nuvole nere. Come succede sempre, alla imminente bufera le pietre balzeranno. Nell'arretrarsi dei loro sangui e dei loro ori che fra il Leone e la Leonessa incupiranno, esse assumeranno una nettezza strana: un giorno consumato ringiovanirà, astratto, eterno, nudità finalmente lucida
Lucera, il 5 Giugno 1934
LUCERA DEI SARACENI
Quando t'apparirà da lontano l'arco ogivale di Porta Troia e vedrai, in un volgersi immenso di solitudine, Lucera, dal chiarore infinito del grano, balzata sui suoi tre poggi, potrà succederti che alcuni fra i più avventurosi fantasmi della storia vengano a mettersi allato.
Avvolto nel vento leggero che muove la loro invisibile cavalcata, seduto in fondo a una carrozzella stridula, forse di loro, che per accompagnarti corrono lentissimi, t'accorgerai mentre, a poco a poco vedendo dall'ombra d'un muro la povera bestia attaccata alla tua vettura uscire con tutto il lungo tenebrore del suo corpo, udendola nel sole accrescere la solitudine col suo trotto invalido, andavi pensando che la grande malinconia superstite dell'800 è il cavallo.
Ti sembrerà che uno dei fantasmi stia dicendo: «Ben Abu Zunghi, farete ordinare per ciascuna delle nostre signore un manto foderato di martora, due camicie e due veli di lino, una gonnella colla mazzetta a fibbia Capito?»
L'altro ha risposto baciandosi la mano e portandosela solennemente alla fronte e al cuore. Ha capito: ha capito la lode indiretta; ma non ve ne accorgereste che da segni impercettibili: da vero eunuco ha una pelle senza età, e ora dalla gioia gli s'è tesa sulla faccia più del solito; da vero guardiano di harem ha gli occhi giallastri, che per un momento ora la crudeltà non oscura.
L'Imperatore, senza parlare, alzando un dito, lo rimanda con quelli del seguito, gli sorride di nuovo
Legata al cavallino impaziente di Federico II, ora t'accorgerai che dietro la sella c'è una bestia dagli occhi bendati. Bruscamente egli s'è girato, la scioglie, la prende in braccio, la lancia, e di lì a poco quella bella pantera di Barberia gli torna con una gazzella fra i denti
Senza lasciare la preda, la bella fa le fusa, strusciandosi alle gambe del cavallo
A questo punto, il "Poeta e Fautore di Poeti" crederà giunto il tuo turno della sua attenzione: «Vedi, m'è caro d'essere Cesare ("l'ultimo" Cesare, dirà Dante) e (saranno ancora, a suo riguardo e del suo bennato figliuolo Manfredi, parole di Dante) m'è caro quindi di seguire in modo eroico e non plebeo la superbia. E per questo alla mia Corte, e dandone io stesso l'esempio, la lingua parlata salirà i primi gradini della poesia colta, e dal luogo del nostro Seggio Regale le prime poesie scritte in italiano si chiameranno per sempre siciliane Sei sorpreso di trovarti qui fra questi Arabi, di vedere là quei cammelli? Lo so, dolce sorpresa per te, che ti fa ritrovare l'infanzia e la prima giovinezza trascorse nei loro focosi paesi In Sicilia baroni e monaci me li avevano messi contro Li ho sconfitti, e, sottomessi, li ho trasferiti in massa qui: ventimila Infedeli fra vecchi, donne, fanciulli, uomini Su quelle alture segregate e come sole al mondo, è il loro accampamento vivace In quella città peripatetica, li ho trasformati da nemici nei miei cavalieri più sicuri Non è stato difficile: anch'io li conosco e voglio loro bene da quando ero piccolo Perché ho scelto Lucera? Guardala: per la stessa natura del terreno, città non solo alta, ma tonda: città militare di quella perfetta forma che Vitruvio prevedeva "affinché il nemico sia da più lungi scoperto" Ora, guarda quella strada scoccata come una freccia: si conficca laggiù a venti chilometri, nel cuore di Foggia Ecco: ho capito che Lucera poteva essere come il mastio di Foggia, come il possesso di tutto il Tavoliere Pane e armenti e tributi a volontà: ti sembra poco per uno che fa la guerra?
«Dunque avrebbero ragione l'Egidi e il Lenormant sostenendo che Vostra Maestà, e il Nasuto e il Ciotto, e più tardi Francesi e Spagnuoli contendendosi il possesso del Regno di Napoli, non avevate precipitandovi sulla Capitanata se non motivi economici?»
«Economici? Ai miei tempi, questa parola non c'era ancora Certo, certo Avevo la mia fede Nessun vero Capitano, né Alessandro, né Cesare, né Napoleone hanno fatto la guerra se non per una fede Ogni tempo ha la sua»
E così dicendo colui che da piccolo chiamavano "il fanciullo di Puglia", sparve
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Federico è quello che è: un uomo grande, e cioè un uomo più che dei suoi tempi, di tempi che aiuterà a nascere. Impersona il Medioevo, la parte epica del Medioevo che è germanica, che è feudale, e nello stesso tempo si dà a promuovere l'Umanesimo, il che è come dire che s'era gettato a capofitto in un'azione contro se stesso.
Economia, economia?
No, sono tanti i lieviti, era la natura, la storia, la Provvidenza: l'uomo è condotto misteriosamente
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Quando sarai arrivato già dentro Lucera, al Belvedere, e da quell'ameno paesaggio ti sporgerai sul precipizio che va a cadere dove la pianura fugge, la città ti apparirà che si inalbera simile a un promontorio, a un salire dalle sue porte militari per amabili pendii verso il brusco orrore del vuoto.
Tenderai allora l'orecchio per sentire se dall'alto d'un minareto non s'alzi ancora almeno un grido Non ci sono più minareti in questa che fu "la Città senza Croci!".
E come saranno state, come sono immaginabili di mattoni, "non bianche", le moschee?
Dei "Saracini cani" non è rimasto nulla: qualche vasetto, qualche pezzetto di ceramica
Le memorie qui sono romane o angioine. Roma, Roma, Roma qui non finirà mai di risuscitare: la sua antichità in questa terra è inesauribile e l'altro giorno ancora in mezzo al Belvedere s'è aperta una fossa e s'è messa a buttare pargoli in fasce, giovi, veneri, bracci, piedi, falli: una vera montagna di terrecotte votive
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Di Federico II non è rimasto se non un enorme slancio di pietre come una cappa sbranata che sta su per miracolo; se non un movimento raccapricciante di pietre paragonabile per audacia solo alla volta della Basilica di Massenzio. D'una residenza che dovette essere una delle meraviglie del mondo a giudicare da Castel del Monte, questo rimane
Ma come nascenti da questo bellissimo rudere, ecco dal Belvedere vedrai che là in cima si svolgono, invece della Cittadella araba, i 900 metri di cinta della fortezza alzata dal Nasuto. È come una corona posata, e da questo punto sembra che basterebbe un venticello a smuoverla.
Salirai. La vedrai nelle sue pietre sbiadite, d'un rosso e d'un giallo quasi bianchi, mossa e annodata nella sua quadratura da ventidue torri poligonali, e dal Leone e la Leonessa, moli cilindriche altissime e grosse d'una vertigine unica sulla ripidità della scarpa.
Dal lato meridionale, sotto ci sono le fornaci, coi loro laghetti fra il grigio della creta che verrà cotta: una miniatura: un vero presepio colle pecore che ora passano: ahimè, una gran disgrazia per la fortezza! Quei fornaciai coi loro scavi hanno fatto sì che ora sono lesionate e pendono la Leonessa e tutta la cortina colle torri da quella parte. Trattandosi di terreni appartenenti al Comune, non dovrebbe essere difficile concedere ai fornaciai altre cave in punti, che non mancano, dove la loro opera non sarebbe se non proficua.
Entrerai nella fortezza: nessuna rovina produce un maggior effetto di ampiezza disabitata, di piazza morta e senza confine Nessuna m'ha lasciato un uguale senso d'opacità del destino, un senso così esagerato di scoramento
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Vedrai ancora i fantasmi; il deserto della fortezza si popolerà dei Provenzali di Giovanni Pipino da Barletta E, ecco, dal lato di Levante che guarda Lucera e Foggia, i "Saracini cani" tentano un estremo assalto: lo squallore della fame ha reso sguaiati quegli artigiani fini, e i Provenzali li uccidono come per giuoco, e agli uccisi alle volte spaccano sghignazzando lo stomaco per mettere allo scoperto la poltiglia del poco trifoglio strappato e divorato eludendo la sorveglianza
* * *
Lo Svevo non ha lasciato qui che un brandello di muro? C'è qui un altro suo segno: l'altare del Duomo e quella sua mensa di Castel Fiorentino, alla quale invitava a sedere insieme vescovi e ulema per ridere nel vederli guardarsi in cagnesco. Non fu guerra religiosa? E perché quella mensa è stata messa lì, se non in segno di riparazione?
Venosa, il 22 Agosto 1934
DA FOGGIA A VENOSA
Il Piano delle Fosse
Piazza ovale che non finisce più, d'una strana potenza. È tutta sparsa di gobbe, sconvolta, secca, accecante di polvere. Da un lato la chiude una fila di carri obliqui sulle ruote nelle profondità dei quali i fichidindia messi in mostra fanno come un mosaico coi loro colori gelati. Grandi scommesse a chi ne mangerà di più, e c'è chi arriva a mandarne giù anche cento.
Mi sono avvicinato a una delle tante gobbe. Dietro aveva come le altre una piccola lapide. Smossa la terra, tolte le assicelle apparse sotto, s'è aperto un pozzo e dentro s'alza un monte di grano. Questa piazza a perdita d'occhio nasconde dunque l'uno accanto all'altro un'infinità di pozzi, conserva il grano della provincia che ne produce 3.000.000 di quintali, e più. Altro che grotta di Ali Baba.
Ho visto cose antiche, nessuna m'è sembrata più antica di questa, e non solo perché forse il Piano c'era prima di Foggia stessa, come fa credere la curiosa analogia fra "Foggia" e "fossa", ma questo alveare sotterraneo colmo di grano mi riconduce a tempi patriarcali, quando sopraggiungeva un arcangelo a mostrare a un uomo un incredibile crescere e moltiplicarsi di figli e di beni.
Nessun luogo avrebbe più diritto d'essere dichiarato Monumento Nazionale.
Tomba di Boemondo
Un poggio declina, salite gli scalini di un vicolo cieco colle sue ombre che palpano la parete, col suo tonfo nell'ombra.
Vedete bene che non mancano di memorie qui a Canosa e possono tirare su anche i muri di povere case incastrandoci il segno di nobiltà di qualche lapide romana.
Tendete l'orecchio a uno scalpitìo confuso che arriva sino a voi pei lastroni della Piazza, poi per quelli del Corso.
Vi mescolate allo sciamare d'echi, siete portato a entrare in Chiesa, vedete sugli elefanti la Cattedra di mille anni fa del Vescovo Orso.
Vi trovate fuori intorno alla Tomba di Boemondo.
Nel grido sordo del sole: Boemondo eroe della 1 Crociata - quei gatti d'Antiochia, dove fu colpito, che hanno un occhio verde e l'altro turchino, le figurine con damaschinature d'argento e i dischi arzigogolati delle imposte dissimili della porta di bronzo, la cupola di bella forma d'uovo sorgente dagli otto lati d'un tamburo.
Lo sgolarsi d'un galletto di primo canto.
La Via Traiana
Non vi sorprenda d'avere incontrato gli elefanti da queste parti. Ne hanno sentito parlare dai tempi d'Annibale, per lo meno. Né vi sorprenda che Canosa occupando i tre quarti d'un colle apparisca, straordinario giuoco di bussolotti, sull'incurvarsi di una strada storica. E se non una città di fatalità omeriche e designata a fiorire prima forse che fosse nato Omero, quale poteva ambire d'essere scelta fra quelle che avrebbero legato ufficialmente Roma al mare?
È una collina come un'onda gonfia più che non dovrebbe consentire la calma che le si stende ai piedi. Ma la Valle dell'Ofanto dalla quale esce Canosa è tutt'altro che calma, se "calma" non fosse vocabolo capace come uno di quegli inganni messi in opera da Annibale e proprio da queste parti che convincevano il nemico a schierarsi anche contro il vento, il polverone e il sole.
Un sole torturante, come non può essercene un altro, degno d'una valle che è uno di quei quadrivi dove i popoli si sono gettati senza trovare nemmeno nel sangue sparso a fiumi la fusione che li aveva spinti nella mischia, e che non sarà mai trovata s'è necessario credere e vivere.
Questo è il campo dove si sono scontrati i Continenti: Affrica e Roma, Bizantini e Barbari.
Questo è il Quadrivio dei Continenti dove, da Canne a Benevento, fu vista la traiettoria, l'alba e il tramonto d'una grandissima impresa umana, secondo i limiti che amaramente le fissava Dante pensando alla sconfitta di Manfredi, chiamando Federico II ultimo Cesare.
Ma se le strade maestre le hanno sempre allargate i calcoli militari, è la favola che le ha tracciate e aperte: uno se ne va, gliene capitano di tutti i colori, per caso arriva dove si ferma, e dopo di lui tre o quattro sono partiti, perché chi è lontano anche se non si sa dove è andato a sbattere, è come una calamita.
Questa favola o un'altra: le strade che dureranno sempre nella memoria sono queste, con precisione non si sa quando nate, alle quali da un punto all'altro della terra i popoli finiscono sempre per tornare, aperte prima di tutto a furia di passi che non sapevano dove andavano a finire.
Il primo è sempre stato un puro eroe, uno partito solo per partire.
I vasi dell'ipogeo
Al Museo di Bari. È fatta scorrere una tendina di velluto verde. M'hanno scoperto in quella vetrina tutta la Puglia in un miracolo d'arte popolare: il miracolo di Canosa.
In quel Museo non mancano vasi apuli d'ogni epoca. Ne ho visto uno che porta disegnato un giovane colle scarpe da funambolo: botas de fota, mi suggerisce il fine Soprintendente Aru; su un altro, un giovane ha in testa un sombrero: ladri di bestiame, iniziatori di piantagioni, forse l'arte greca si era messa qui a immaginare un romanzo di pianura vergine.
Ma il vasaio canosino un giorno impazzisce. Ha mandato in giro tanti mai vasi sui quali il disegno è più o meno vivo, più o meno accademico, ora è sul punto di doversi riposare e diventa naturalmente come un bambino, e sarebbe meglio dire: diventa come uno che abbia ritrovato se stesso: la tecnica delle figure rosse su fondo nero è abbandonata, e a nausea gli è anche venuto quell'untume che hanno i soliti vasi.
I nuovi vasi di una cottura incompleta, è abbandonata, come era giusto in Puglia, la cera per la calce: immersi in un bagno di calce, il bianco è lasciato alle figure coprendo il resto d'un rosa acre, e al rosa verranno presto a tenere compagnia altri colori anch'essi dati a fresco: il rosso cupo e il nero per i capelli, l'azzurro, il vermiglio S'è ottenuto così un effetto assetato e abbagliante, com'è questa natura.
Questa non è la sola novità: nel vaso è penetrato come un lievito, e il vaso si è gonfiato, s'è fatto trabocchevole di ornati in rilievo; le teste dei cavalli d'una quadriga hanno sfondato la pancia d'un orciuolo, dai fianchi d'un secondo vaso fanno capolino vispi ippocampi, dalla bocca d'un terzo escono brontolando un tritone e una tritonessa, un quarto ha addirittura la forma d'una testa femminile e due testine giovanette le sbocciano lateralmente da quattro petali che formano calice.
Insomma il Barocco più straordinario e più genuino si manifesta in questi vasi rinvenuti in un ipogeo di 22 secoli fa.
Sveglia a Venosa
Sono le sei di mattina. Come sarò arrivato quassù?
«Tu - tu - tum
Tum!
Si ven-
De!
Carne di vitello a 4 lire e 30 al chilo
Trippa
A lire una
Altra carne buona
Al macello
Santa Maria!
Tu - tu - tum
Tum!»
È il modo di suonare la sveglia quassù: uno a passo di parata, fermandosi di scatto: tamburo, tre colpi e uno, la filastrocca su riportata; venti passi: tamburo, tre colpi e uno; venti passi, tamburo
In Piazza c'è in marmo Orazio con un rotolo: è giusto, è nato quassù.
Incomincia quassù la Puglia o finisce la Lucania? Nessuno l'ha mai saputo, nemmeno Orazio.
Vedo delle antiche epigrafi ebraiche. Anche questo era un punto d'incrocio di strade romane. Anche qui è rammentato Boemondo.
Questo, oggi, è il punto strategico dell'Acquedotto Pugliese.
Caposele, il 9 Settembre 1934
ALLE FONTI DELL'ACQUEDOTTO
La sete.
Ho conosciuto il deserto. Da lontano, un filo improvviso di acqua chiara e viva faceva nitrire di gioia i cavalli.
Ho conosciuto Paesi di grandi fiumi.
Ho conosciuto terre più basse del mare.
Ho conosciuto l'acqua che s'insacca, l'acqua che s'ammala, l'acqua colle croste, con fiori orrendamente bianchi, l'acqua venefica, i riflessi metallici dell'acqua, la terra come una tonsura fra rari ciuffi d'erbe idropiche.
Ho conosciuto l'acqua torrenziale, l'acqua rovinosa, l'acqua che bisogna asserragliare.
Ho conosciuto l'acqua nemica.
Ho conosciuto Amsterdam dove si vive come navi ferme collo sguardo sott'acqua. L'architettura delle stesse case, prive di volume, incatramate, non trova lì consistenza se non nello specchiarsi. Sovrapponete a un'architettura quanti ornati vorrete, sarà sempre uno scheletro; ma lì non è nemmeno uno scheletro: è un sogno. E difatti guardando dall'alto un tram fuggente con i suoi lumi, nel vederlo giacente nella sua crisalide capovolta sotto le velature e le trasparenze d'un'acqua putrefacente, ho conosciuto la verità di Rembrandt: sogno.
Ora andremo sino alle fonti del Sele.
Se gli Estensi volevano vedere in giro vivente la loro nostalgia, e portavano Ferrara a Tivoli, se forse le grandi acque di Versaglia sono un canto ferrarese dei Francesi, questi Italiani del Novecento non hanno insegnato al mondo il modo di sbizzarrirsi coll'acqua, hanno semplicemente dato da bere a chi aveva sete.
Ma per questo non ci voleva meno fantasia che a quei tempi, e ci voleva una volontà molto più umana. Ne è nata un'opera che, come si vedrà in prossime note, sfida qualsiasi altra anche per bellezza.
Acquaforte
Rotolato dall'acqua c'è un macigno
Ancora morso dalla furia
Della sua nascita di fuoco.
In bilico sul baratro non pecca
Se non coll'emigrare della luce
Muovendo ombreggiature a casamenti
Tenuti sulla frana da bastioni.
Attinto il vivere segreto,
Nell'esalarsi della valle a sera
Sono strazianti le sue cicatrici.
Caposele, il 9 settembre 1934
L'ACQUEDOTTO
Lasciando Venosa, non possiamo fare a meno di fermarci a guardare una vecchia opera romana. Questa è anch'essa un acquedotto e vivo ancora, e in grado di trasportare alle fontane per tanti altri secoli quelle sue acque prese sui monti di Sud e abilmente convogliate da pozzi antichi in un letto naturale.
Beviamo l'acqua alla fontana millenaria, e non è vero che sia solo una illusione crederci ora, meglio preparati a capire un'opera colossale come l'Acquedotto pugliese. Opere di civiltà simili il mondo s'è abituato a chiamarle "lavori da Romani", e infatti questa è la civiltà che hanno insegnato a tutti: di grandi opere pubbliche. E se fossi giurista vorrei dimostrare come l'immortalità del diritto romano sia dovuta alla sua facoltà d'animare a grandi opere pubbliche.
Qui l'Acquedotto pugliese si biforca, e un ramo va verso Bari e Lecce e l'altro verso Foggia. È un'informazione che mi dànno mentre scendiamo nella Vallata del Torrente Lapilloso che circonda Venosa.
Entriamo in un canale: sopra e sotto una volta a sesto acuto, in mezzo una passerella. Ci aprono una porta di ferro, c'infiliamo in una galleria che va nel cuore della collina per 200 metri. Ora siamo davanti a cinque scalini, andiamo su, aprono un'altra porta di ferro: già ecco, è l'acqua che corre, alta quattro metri, increspandosi per l'irruenza: 6000 litri al minuto secondo e, da Caposele, sono già 52 km. che va in canale. Limpida è l'acqua che per natura doveva andare dalla parte del Tirreno e per volontà degli uomini andrà verso l'Adriatico e il Mar Jonio.
Questo è il punto, mi dicono, dal quale l'Acquedotto pugliese incomincia la distribuzione dell'acqua ai Comuni. È un'informazione importante. Ma non m'importerà di ricordare se non il nostro andare sottoterra in un tubo, titubanti, in fila per uno, con una lanterna, e senso di cassaforte, e senso di tabernacolo, il senso di miracolo del fiume apparso improvvisamente in un segreto.
Quell'apparizione di acqua: sorprendente come una grande contentezza immaginaria fra il sonno nell'oscurità della mente.
Mi torna in mente la casina visitata sul Gargano. Una gronda versava in un angolo dentro la casa l'acqua piovuta e raccolta sul tetto, e l'acqua rara andava a finire in un pozzo dove era conservata come una reliquia. E negli anni di siccità? Non c'era nemmeno quella poca provvista.
Ora l'Acquedotto pugliese ha portato l'acqua potabile anche in Capitanata e anche sul Gargano come l'ha fatta zampillare dalle fontane dappertutto anche nelle provincie di Brindisi, di Lecce e di Taranto: 1500 km. di canali e di condotte costruiti. Non solo, ma i 244 km. del canale principale di cui questo di 52 km. che ora andremo a vedere sino alle sue origini a Caposele è il primo tronco erano nel 1923 in tali condizioni di abbandono che è stato necessario ricostruirli, e molto più solidamente di prima. Pensate: un'opera eseguita interrompendo a tratti l'acqua, ma in modo che non venisse mai interrotto il servizio ai Comuni.
Per farci un'idea di come possa farsi un'interruzione, torniamo al punto dove c'è apparsa la fuga di 6000 litri al minuto secondo: vedremo due paratoie di ferro battuto che manovrate da ingranaggi speciali chiuderanno occorrendo il canale e l'acqua allora per un'apertura a sinistra della galleria di 200 metri si precipiterà nel Lapilloso, e allora il canale non ricevendo più acqua andrà vuotandosi e i muratori con i loro stivaloni di gomma potranno entrare a ripararne un tratto: c'è per questo una porta di ferro.
Torniamo a rivedere il sole; e ci avviamo verso Ripacandida. E prima incontriamo il Vulture: nero con i suoi quattro o cinque dentacci.
Acqua, fuoco: eruzioni e alluvioni hanno dato l'impronta ai pietroni d'intorno. E così arriva Ripacandida, collina ovale, levigata, con un paesino in cima, avvolgendo la quale giù come un serpe striscia l'acqua della Fiumara.
È ora la seconda stazione dell'Acquedotto verso le sue sorgenti. È un casotto di pietra calcarea, di bella linea; questa volta, aperta la porta di ferro, è una china che ci si presenta, e in mezzo fra due scale, come due file di denti appena sporgenti, è un viale che va giù fino dove non arriva più l'occhio. Scendiamo, ci aprono un'altra porta di ferro: c'è un pianerottolo e sotto rivediamo, mentre passa proprio sotto la Fiumara, l'acqua che si muta alla velocità di 6000 litri al minuto secondo.
Uscendo da Rionero, vediamo un enorme masso di verde boschivo che s'innalza cupo al cielo: è il Vulture che torna a farsi vedere. Gli corriamo ai piedi sino ad Atella dove, entrati nel panorama dominato dal Monticchio, lo perdiamo di vista.
Scesi nella Vallata della Fiumara d'Atella, siamo alla terza stazione; è un ponte alto quasi 40 metri con un'altezza di luci che arriva sino a venti metri, e sta fra due colline uscendo dalla spalla dell'una per entrare in quella dell'altra: porta da una collina all'altra, in un canale murato sulle arcate, l'acqua fuggente alla velocità che ormai sapete.
Ho voluto avere un'idea di come fossero i Lillipuziani, e siamo scesi giù al cancello del ponte: è venuto ad aprirci un uomo dal fiero aspetto: il custode ch'è anche cacciatore di cinghiali, volpi e lontre. Ai piedi del ponte ci si sente difatti persi di statura.
Rimessici in viaggio, entriamo nella vallata del San Fele dove si sono date convegno grandi stranezze: Monte Fioni che sembra un siluro, Monte Pernazzo simile a una piramide bislunga, e Monte San Fele, altra piramide, su una faccia quasi a picco della quale le case aggrappate viste così a distanza sembrano tanti ordini di palchi d'un teatro di formiche.
Poi s'apre la Vallata dell'Ofanto e per un'altra strada a girandola arriviamo in cima a Calitri, paesino bianco a 600 metri, colle case che si tengono strette sulla frana.
Fatta colazione ripartiamo, e dopo poco arriviamo alla quarta stazione, presso il torrente Ficocchia. La stazione questa volta si presenta sotto forma d'una botola. Per scala ci sono dei ramponi alla parete verticale, e di particolare vediamo in fondo a un pozzo come due grandi bocche di cannone: chiuse da piatti d'acciaio servono a tenere ferma l'acqua; ma il loro scopo, quando occorra, come di quell'apertura vista alla prima stazione, è di vuotare il canale per visite o riparazioni.
Salita la Sella Conza, che divide il Versante Adriatico dal Tirreno, con il senso d'un'altr'aria, più fresca, penetriamo nel primo gruppo di Vallate del Versante del Sele.
Si faceva sera, e dalle colline qua e là apparivano i primi lumi:
«Quei lumi è Castelnuovo, quelli è Laviano, e quelli è il paese più ricco d'Italia: Calabritto»
Ed eccoci, per curve vicinissime l'una all'altra, arrivati a Caposele!
Entrando in paese ci viene incontro una gola di una cinquantina di metri per dieci, spaccata nella roccia e sparsa di macigni ruzzolati e piombati dalla montagna; qui si vedono le sorgenti del Sele lasciate in libertà e che alimentano ciò che rimane del fiume che va dalla parte di Pesto: un boccalone vomitante in cima, e sotto un'infinità di fontanini che intrecciano le loro vene fra gli olmi, l'edera, le acacie, il sambuco, un fico che ha l'età di Matusalemme: in fondo fra i pietroni l'acqua scivola sveltissima, in una specie di foro tenebroso, e si perde in quell'occhio.
A questo punto, davanti a tanti scrosci e fruscìi, un vecchio che avrebbe potuto fare da modello a un apostolo caravaggesco mi viene accanto e mi dice all'orecchio:
«Non mi vogliono dare nemmeno l'acqua da bere»
Rifletto che se fossi andato in cerca della misura della pazzia non l'avrei mai trovata più esatta, e vado oltre.
Entriamo in un luogo solenne. Ha come sfondo Monte Rotoli che sale da 4 a 700 metri, Monte Calvello di 1200 metri, Monte Cerviali di 1200 metri: per gli interni alambicchi di questi monti l'acqua del Sele arriva alle sue sorgenti.
E proprio ai piedi della buia parete verde del Monte Rotoli è captata l'acqua per l'Acquedotto. Ora sono polle non meno vive di prima, ma sepolte. Al loro posto dove formavano lago a ferro di cavallo, appare un prato, e da un lato nello sfondo sorge su un salto un povero campanile distaccato dalla sua chiesa trasportata altrove. Nel mezzo del prato si notano quattro botole ermeticamente chiuse: sono gli accessi al canale che, afferrate le polle, le svia per una brusca storta, ed eccole dentro una stanza di manovra.
Poi m'hanno aperto, sotto un arco di mattoni a forma di turbante, un finestrino: con un continuo rombo, un'acqua che si slancia come un toro: qui incomincia l'Acquedotto:
Laudato si mi Signore per sora acqua
La quale è multo utile