IL MANIFESTO: UN LIBRO DI UNA PAGINA

Il manifesto è un libro con una sola pagina: idea, immagine retorica, forse non molto originale, certo seducente, ma nient'altro.

In ogni caso, catalogare manifesti è diverso che catalogare libri. Questo si capisce.

Forse però non è immediatamente evidente in che consista la diversità, anzi senza un'esperienza diretta resta in ombra una delle differenze più macroscopiche, cioè il diverso, opposto rapporto fra autore e opera.

Il libro, si sa, fa di tutto (frontespizio, dorso, copertina...) per mettere in evidenza l'autore, e anzi, quando questo non accade, come quando manca una di queste fonti di informazione, o anche nel caso di un'opera anonima, finta o vera, o ancora nel caso di un nome falso, questo rapporto offuscato fra autore e opera costituisce un evento catalograficamente rilevante e una circostanza degna di essere segnalata.

Nel manifesto la situazione è tutta diversa: l'autore si nasconde, si mimetizza, dissimula la propria esistenza. E, a voler usare ancora la metafora del libro, si potrebbe dire che il manifesto è assimilabile a un manoscritto, con l'avvertenza che questi manoscritti sono per la maggior parte anonimi.

Anche quando gli autori dei disegni firmano, il loro carattere è il corsivo, graffito in punti spesso impensabili, con un largo uso dell'abbreviazione, dell'elisione, della riduzione a sigla e di tutto quant'altro viene comunemente usato negli infiniti modi di tracciare una firma.

Quindi una delle differenze maggiori rispetto al libro è costituita proprio da questa fatica continua di dover prima di tutto ricercare e poi decrittare questi segni raramente semplici con cui i grafici graficamente, appunto, si firmano.

Per questi motivi occorre un lungo tirocinio, un'abitudine che si acquista lentamente con l'esperienza, per non lasciarsi fuorviare, per scoprire nei punti più impensabili la griffe. In un falso ricciolo di capelli, perfino in una macchia meno scura dello sfondo che a prima vista appare come una imperfezione di stampa, lì è la firma.

La firma, oltre a registrare il nome, è sempre anche un elemento distintivo, un sostituto del marchio, un segno di riconoscimento. I grafici il più delle volte esasperano questi caratteri: firme puntate, puntute, linee appena ondulate, segnetti minuscoli lasciati quasi in fretta, come se la tavola fosse stata strappata loro di mano: così in gran parte sono le firme dei grafici.

E c’è poi quel mare di disegni, anch'essi bellissimi, che non portano alcuna paternità: definitivamente anonimi. Come se fossero stati fatti per prova o con noncuranza, eppure così perfetti! Perché non sono firmati? Inevitabilmente il pensiero si muove per analogie, va ad altri disegni, a quelli di Leonardo, per esempio, alle sue prove, quasi degli appunti, a quei cartoni anch'essi non firmati, così "indefinitamente" espressivi, così suggestivi, già così conclusivi, eppure così "preliminari" rispetto alla successiva opera pittorica. Ovviamente "si licet parva componere magna"33.

Si dà poi il caso che qualche volta dopo la fatica di individuare la firma, bisogna adattarsi perfino a risolvere dei rebus, e non per modo di dire, come quando si incontra una tavola griffata con un fiorellino, una specie di margherita e tre lettere. "NZI". Che firma è questa? Sarà l'insegna di una tipografia, il marchio di uno studio grafico? Ma, come sempre nei rebus irrisolti, qualcosa non quadra: c'è un di più o un di meno. La soluzione, quando arriva, la si riconosce per vera proprio perché calza perfettamente, si sente immediatamente che è giusta: "...è chiaro che si tratta di Fiore-NZI = Fiorenzi" (decrittazione del catalogatore).

Antonio De Cosmo, Rita Hayworth e il suo "doppio": Diario grafico-catalografico in "la Capitanata. Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia", a. XXXI (1994), n.s., n.2, p.291-292