Raffaele Colapietra
I COLLABORATORI ABRUZZESI DI FRANCESCO RICCIARDI*
Vi era forse Carlo Lauberg tra gli Scolopi, ed i loro allievi, che la mattina del 7 marzo 1788, dalle alte finestre posteriori del loro collegio chietino, la fondazione secentesca patrocinata dall'arcivescovo genovese Stefano Sauli nella quale aveva trovato conforto e rifugio (ed opportuna base mediatrice per i suoi contatti col ribelle Carafa di Castelnuovo) Francesco d'Andrea1 assistevano alla discesa del corteo funebre per l'interramento del marchese Romualdo de Sterlich, morto il giorno prima, dall'ampio e movimentato palazzo sulla sinistra alla sottostante chiesa di S. Francesco di Paola.
La venuta di Lauberg, l'anno prima, ed i suoi scritti di aggiornato scientismo naturalistico e di garbata tradizione empiristica lockiana, tra la dedica ad Acton ed il ricordo di Genovesi2 non aveva fatto altro, in verità, che ratificare e suggellare il ruolo del tutto particolare che, nel corso degli anni Ottanta, e magari già prima, era stato ricoperto dagli Scolopi di Chieti, malgrado i posteriori forse immeritati sarcasmi del Galanti3 in un contrappunto precisamente con De Sterlich che sarebbe tutto da precisare e da chiarire in una chiave determinata4.
Resta il fatto che presso gli Scolopi aveva anzitutto studiato, sullo scorcio iniziale del decennio precedente, Antonio Nolli, nato nel 1755 da Camillo, barone di Tollo, e da Rosaria Petrini, una dama bergamasca la cui tenera amicizia con De Sterlich aveva dato molto da ridire, ed era stata comunque senza dubbio all'origine di un vincolo singolarmente stretto fra l'attempato patrizio ed il giovane virgulto di una famiglia di alto artigianato lombardo, trasferitasi nell'Abruzzo aquilano e poi nel chietino nel secondo Seicento, e che appunto con Camillo, morto nel febbraio 1777, aveva acquistato per 25 mila ducati dai De Ruggero, poco più di due anni innanzi, il ricco feudo nelle pertinenze della città5.
Antonio si trovava all'epoca nella capitale, dopo gli studi universitari compiuti a Bologna, e, rientrato in patria, vi aveva ricoperto nel 1779 la carica di camer- lengo, a Chieti investita di potestà e privilegi del tutto particolari nel panorama meridionale6 prodromo di ben più delicato e significativo ufficio, nell'ottobre 1788, all'indomani della scomparsa di De Sterlich (e di quella, di poco posteriore, e ben più destabilizzatrice, di Filangieri), la presidenza della società patriottica istituita a Chieti da Nicola Codronchi in contemporaneità e coordinamento con gli altri due capoluoghi abruzzesi7.
Senza che qui sia possibile entrare nel dettaglio di un'iniziativa così significativa e complessa, ci limiteremo ad osservare anzitutto che essa coinvolgeva a Chieti, fin dal suo esordio, in qualità di segretari del sodalizio, almeno un paio di importanti personaggi, il lancianese Vincenzo Ravizza, di vent'anni più anziano del Nolli, letterato ed erudito che aveva mandato a studiare agli Scolopi, e poi a Napoli, entrambi i suoi figli, Gennaro, che avrebbe ripreso autorevolmente nel primo Ottocento la tradizione erudita paterna8 e Giuseppe, futuro segretario generale dell'intendenza di Abruzzo Citra dall'istituzione nel 1806, per oltre vent'anni fino alla morte nel 1828, e Tommaso Durini, del ramo cadetto dei baroni di Bolognano, che avrebbe avuto in Giuseppe Nicola, cugino del Nostro, un ben noto scrittore di cose economiche, collega di Tommaso come consigliere d'Intendenza sin dalle origini (quest'ultimo vi sarebbe rimasto fino alla morte, nel 1827, a segnare una continuità rimarchevole d'indirizzo murattiano-borbonica, analoga a quella di Giuseppe Ravizza) e più tardi sottointendente a Vasto ed a Penne, intendente di Teramo e consigliere di Stato9.
Non solo: ma l'attività della società patriottica si apriva, sullo scorcio finale del 1788, con la presentazione di una memoria di un giovane concittadino lancianese dei Ravizza, l'avvocato venticinquenne Pasquale Liberatore10 il quale, con la concretezza nervosa che gli sarebbe stata riconosciuta ed elogiata in morte da un ben noto scritto del Mancini, sul cui intervento torneremo a suo tempo, poneva l'accento sulle cause dell'arretratezza economica della provincia, l'ignoranza dei proprietari, la mancanza di buoi da lavoro, la brevità degli affitti, "l'abusivo consumo del grano d'India", una tematica perfettamente armonizzata, insomma, con le prospettive del Codronchi, e che non a caso, di lì a tre anni, sarebbe stata largamente riecheggiata nel Galanti.
Si accingeva intanto a partire per Napoli, a completarvi gli studi, un giovanissimo e precocissimo vassallo del Nolli (avrebbe compiuto diciassette anni il 30 settembre 1789, la partenza verificandosi il 3 novembre successivo) che grazie ad una versatilità singolare d'improvvisatore in rima avrebbe ricordato l'episodio con un sonetto indirizzato alla madre Teresa De Horatiis11 ed allo zio e protettore, l'abate Luigi Nicolini12.
Si trattava, lo si è compreso già dall'accenno a Tollo, anche a prescindere da quest'ultima esplicita indicazione, di Nicola Nicolini, che quarant'anni più tardi, prendendo spunto dal necrologio di uno degli esponenti di spicco di quel cenacolo di giovani d'eccezione che negli anni Ottanta si era raccolto intorno a De Sterlich, ed al dioscuro insostituibile della generazione post genovesiana, Melchiorre Delfico, il marsicano Francesco Saverio Petroni, da lui appena incontrato dialetticamente, per così dire, quale intendente di Chieti, dopo una carriera tipica di tutta questa generazione medesima, ormai identificatasi tout court col riformismo murattiano13 ne tracciava un ritratto indimenticabile, a partire appunto dal Delfico, che, poco più che quarantenne, rappresentava una sorta di transizione tra l'ortodossia genovesiana di De Sterlich ed i nuovi tempi di Filangieri (proprio dalla proposta di quest'ultimo per l'affitto sessennale del Tavoliere, l'estrema sua fatica riformistica, avrebbe preso le mosse, sempre nel 1788 da cui siamo partiti, il Delfico per il suo Discorso ultraprivatistico e modernamente proprietario, con in prospettiva il Palmieri) e nella casa chietina del giovane Nolli
formava il suo incanto, meno per le conoscenze, che vastissime, come ognuna, e svariatissime erano in lui, che per la sobrietà nel farne uso, per l'intelligenza onde giudicava gli uomini e le cose, e per quella sua perpetua serenità onde, o lieto o triste il presente, ce lo dipingeva sempre nella ridente prospettiva d'un felice avvenire.
Accanto a lui, appunto, il pupillo di De Sterlich
men rispettivo, più fervido d'ingegno, più pronto e decisivo ne' giudizi, più impaziente di freno
e poi ancora il barone Durini, Giuseppe Nicola, "d'indole più placida", i fratelli Ravizza "di assai facil natura", lui, il Petroni, e finalmente il coetaneo e l'amico con cui fin dal 1787 si era trasferito a Napoli, sui vent'anni entrambi, a consigliere saviamente come giureconsulti più che a fervidamente arringare quali avvocati, Giuseppe de Thomasis da Montenerodomo, uno di quei feudi di periferia nei quali l'aristocrazia illuminata, nella circostanza il principe di Caramanico, sul quale non è certo il caso qui di dilungarsi, lasciava più vivi e fiorenti che mai gli "abusi" di antica e magari retorica memoria (ma tutto l'argomento meriterebbe di venir rimeditato a dovere)
giovane di alta mente, grave, poco sofferente, e di pronta quanto placabile ira, tutto inteso fin d'allora alla scienza dell'uomo e de' suoi rapporti sociali14.
Da questo lieto e già prestigioso sodalizio l'adolescente Nicolini si distaccava per godere nella capitale delle musiche alla moda di Cimarosa e di Paisiello, circa le quali si confida con lo zio Luigi in occasione del carnevale 1790, ma anche, più sostanziosamente, per prepararsi ad arringare a Castel Capuano, dove esordiva, non ancora ventenne, il 16 aprile 1792, dinanzi all'auctoritas leggendariamente terrifica del Sacro Consiglio, su una piattaforma storico-matematica dell'interpretazione del diritto
Sol poche linee Euclide, e poche rime Dettommi Clio che induce a riflettere15.
Mentre infatti, nonostante le sue profferte di rigore più o meno moralistico, Nicolini si abbandonava per lunghi anni a Napoli alle seduzioni dell'improvvisazione poetica, che lo avrebbero introdotto nel clima cortigiano al più alto livello16 a Chieti la tradizione della "sapienza" di Lauberg tra gli Scolopi era tutt'altro che spenta, e l'avrebbe rievocata di lì a qualche anno17 col consueto fervore il più giovane di quei sodali, Pasquale Borrelli, nato nel giugno 1782 a Tornareccio, uno dei tanti feudi abruzzesi del gran connestabile Filippo Colonna principe di Paliano e duca dei Marsi, che alla metà degli anni Novanta era salito anche lui a Chieti a fare il suo noviziato tra gli Scolopi:
La geometria e l'algebra, timidamente introdotti fra i monti aprutini da un uomo capacissimo di misurarne il vigore e dilatarne la stima, presentavano in essi appena appena l'aurora del giorno matematico.
Quest'uomo era Paolo Aquila, uno scolopio di Rivello in Basilicata, del quale purtroppo sappiamo pochissimo, e solo assai recentemente, grazie alla benemerita attenzione dedicatagli da Carmelita Della Penna quale estensore della relazione per Abruzzo Citra della statistica murattiana18 e, poco prima, da Domenico Demarco nella medesima prospettiva19.
Accanto a lui, nella Chieti di fine Settecento, che col 1790 aveva assistito ai primordi di un'attività teatrale, e soprattutto ad una riforma municipale grazie alla quale era stato abolito il "dispotismo" del camerlengo e del decurionato a vita, un nutrito stuolo di amici, come Tommaso Maria Verri, il distinto letterato vicario vescovile di Ortona, e di condiscepoli più o meno brillanti del Borrelli, a cominciare dal compaesano Vincenzo Daniele, che sarebbe finito rettore del liceo dell'Aquila, e poi il Gaetani lettore di filosofia e matematica nel collegio di Vasto, il Berardini suo collega ad Ortona, il chietino Vincenzo De Ritis, il vastese Benedetto Betti, filologo e filosofo, l'abate Coletti di Atri, l'altro teramano, di Mosciano, medico e matematico, Giuseppe Saliceti.
Tutto questo mondo aveva una sua precisa e circoscritta connotazione culturale, che ancora Pasquale Borrelli si preoccupa di definire20 allorché si appella agli Scolopi di Caravaggio, dai quali era stato ospitato a Napoli nel 1798, per dimostrare che all'epoca
egli non avea letto né Rosseau né Voltaire ma aveva esposto in conclusioni solenni i principi matematici della filosofia naturale di Newton, e conosceva egli gli offici di Cicerone.
E c'è da credergli, con l'analogo esempio eloquente di Nicola Nicolini il quale, indotto dalle burrasche giacobine e sanfediste, e più dalle incertezze della prima restaurazione, a riparare in patria (lo fa infatti soltanto nel giugno 1800, nei giorni di Marengo e dell'occupazione napoletana di Roma) vi si dedica significativament ed espressamente, risiedendo tra l'altro a Vacri, nel feudo tradizionale dei Valignani, a studi danteschi e vichiani che caratterizzeranno con forza la linea culturale della sua età matura, con la più volte asserita e difesa fratellanza d'armi tra filologia e filosofia:
E qualor pur ricado in basso loco Tra gli empi dell'Inferno e degli Annali La Scienza Nuova e il Paradiso invoco Voi (scil. le Muse) fra l'ire civili al patrio tetto Mi riduceste illeso: e a Dante e a Vico Gli ozi miei deste in guardia e l'intelletto21.
Tacito è dunque a tutte lettere, e con lui le nequizie del dispotismo (e dell'anarchia) il nemico da battere: e perciò non è meraviglia che, tra una meditazione e l'altra, l'ottimo Nicolini torni alla prediletta improvvisazione poetica, e vi torni per celebrare la pace, che gli sta per restituire Napoli e l'arringo forense, non solo la pace internazionale di Firenze, nei suoi risvolti per tutt'altro che trascurabili di circolazione rinnovata delle merci e delle idee, quanto soprattutto la pace interna, che non può non fondarsi appunto, in via preliminare, sul debellamento dell'anarchia.
Viene fuori così La pace poemetto in verso sciolto di D. Nicola Nicolini per il dì 24 giugno di S. Giovanni Battista nome che porta S.E. il signor marchese Rodio preside e comandante delle armi in provincia di Teramo che il maggiore Giuseppe Clary fa mettere a stampa precisamente nel capoluogo aprutino con dedica al Rodio come opera "del celebre vate estemporaneo D. Nicola Nicolini" a glorificazione del quale si evocano in folla Anacreonte, Orazio, Virgilio, Petrarca, l'Alighieri e, sintomaticamente buon ultimo, il Gessner.
Don Nicola, quanto a lui, data il suo poemetto Torre dei Passeri 22 giugno 1801, mentre sta tornando a Chieti reduce da Pietranico, alle falde del Gran Sasso, dove si è imbattuto in Rodio, il primo preside recatosi di persona in quelle alpestri contrade, ed ivi amministrante patriarcalmente giustizia nel bel mezzo di una processione, come si narra diffusamente nel poemetto, e da Castiglione a Casauria, dove era avvenuto il primo incontro col giovane eroe, poi accompagnato dal Nostro a Pietranico, ospiti entrambi della marchesa Maria Anna Marciano Simonetti Depetris Fraggianni, la cui figurina suonante al piano fa da delizioso suggello per tutta l'arcadica scenetta.
Ma, naturalmente, la pace non è soltanto l'Arcadia, così come Dante e Vico non servono soltanto alla metodologia interpretativa del diritto.
Nicolini lo afferma a chiare note:
Oh Astrea figlia del Ciel! tu sola formi Il desio delle genti: e se di Pace Tu compagna non sei, vive ancor Marte In false forme
come appunto in Abruzzo, dove era "surto un mostro infernal" il quale, in mezzo ad altri affini spaventevoli atteggiamenti,
al tuono Che già dal Po fremer si udia, ei l'ire Ralluma alto ululando.
Ma ecco che sopraggiunge Rodio
e il mostro è spento. Salve, o Alcide novello
un'immagine scontatissima, quest'ultima, ma che pure non possiamo fare a meno di riscontrare identica in Nicola Palma22
Rodio fu l'Ercole che distrusse tanti mostri e per questo titolo la provincia gli ha una obbligazione infinita
a sancire il respiro di sollievo con cui tutto il moderatismo abruzzese accolse la repressione degli strascichi dell'anarchia sanfedista, una volta chiusa in parentesi, per così dire, la persecuzione antigiacobina.
Ma in Nicolini, l'abbiamo detto, c'è anche altro, c'è la preoccupazione, viva dai tempi tempestosi di Latouche-Tréville e di Nelson, dell'indispensabilità della pace marittima per garantire le città costiere, a cominciare dalla capitale, dai pericoli dell'apparizione improvvisa di una flotta ostile, e specialmente per ripristinare il rapporto con l'Europa ormai da gran tempo minacciato o interrotto:
E tu dell'arti nudritor Industre padre, che trasformi e cangi Il superfluo in ricchezza, ed il selvaggio In colto cittadin, languente cadi Tu, o Commercio infelice: ed ogni colpo Che si vibra sul mar, fere il tuo petto.
Vi erano per la verità altri colpi da cui guardarsi, come quelli di cui si lagna Pasquale Borrelli, divenuto nel frattempo, appena ventenne, professore straordinario presso l'ospedale di S. Giacomo degli Spagnoli, nel proemiare nel 1803, con dedica al cappellano maggiore Agostino Gervasio, ai suoi Principia Zoognosiae medicinam physicae legibus scientifica methodo superstruentia concinnata ad usum domestici auditorii allorché denunzia polemicamente23 la persecuzione subita da falsi teologi naturali
recentium systematum, imo veritatis, patriaeque hostes, obscuriorum epocharum barbariem stulte revocantes.
In realtà, molti anni più tardi, nella piena e tarda età ferdinandea, tornando su questo periodo immediatamente precedente al decennio, tanto Borrelli quanto Nicolini, nella prospettiva essenziale della continuità e dello sviluppo sulla quale avremo modo di tornare più volte, avrebbero sottolineato la solidità del momento politico e culturale, temperato le ombre, presentato il tutto come semplice, e robustissima, fase preparatoria ai successivi, pressoché naturali, risultati riformistici.
Scriveva Borrelli, nel novembre 1832, in una circostanza particolarmente impegnativa e per sé stesso e per il personaggio trattato24 che il Giampaolo arciprete di Ripalimosani presso Campobasso aveva ribadito e sancito il ruolo degli ecclesiastici nelle riforme, sia con la sua "morale mistica", sia col suo appoggiare la metafisica alla fisica, e col conseguente rifiutare, pur non esaurendo nella sensazione la sua prospettiva gnoseologica,
quelle distinzioni affollate e ricercate e sottili le quali, a luogo di chiarire, assiepan lo spirito
sicché bene aveva fatto Giuseppe Bonaparte a chiamarlo nel Consiglio di Stato, poiché
stimò sanamente che a consigliare il sovrano non occorresse che il senno, e non già quello degli avi, che son polvere ed ombra, ma il proprio.
Ed incalzava Nicolini, a proposito dell'amico Petroni25 e del clima che aveva accompagnato il suo noviziato nel quindicennio 1790-1805, che era pure, lo sappiamo, sostanzialmente il suo:
Tutto spirava repressione degli abusi feudali, ripristinamento dell'unità e della forza legale nelle amministrazioni municipali, equità nella ripartizione de' dazi, restituzione all'agricoltura de' demani sottrattine dal pregiudizio e dall'orgoglio, bonificazione delle terre paludose, abolizione de' passi e de' dritti proibitivi, svolgimento il più ampio e consentaneo alla pubblica utilità de' rapporti della pastorizia d'Abruzzo con la coltura del tavoliere di Puglia.
Non solo: ma a dire del Borrelli26 i metodi antecedenti al 1806 erano "alcune volte più semplici e meno dispendiosi de' moderni", e si collocavano sulla via regia che, addirittura dallo "spirito della disciplina" di Accursio e dall'estro di Dante, esempio insigne della "forza pensante che ispira i poeti", aveva condotto a Galileo col suo "spirito osservatore e geometrico", alla filologia di Vico, all'indulgenza di Beccaria, ed infine al "cosmopolismo scientifico" di Antonio Genovesi, il quale non solo "non ascese alle acute e nebbiose sommità del priorismo" avendo reso la logica "capitale delle scienze" e non "ergastolo isolato", ma si rese benemerito per aver promosso le riforme dei principi anziché quelle dei popoli, dal momento che le une procedono "blandendo" e le altre "devastando"27.
Pasquale Liberatore non era stato esattamente, a suo tempo, in quell'ordine d'idee, mentre Antonio Nolli, il solo, insieme con lui, dei "novatori" degli anni Ottanta rimasto in Abruzzo Citra a misurarsi con la seconda, e più modesta generazione, il padre Aquila ed i suoi allievi al di fuori di Borrelli, per intenderci, girava l'Europa col fratello Giustino, dopo aver avuto "molta parte in conservar la quiete" tra le burrasche del Novantanove, per dirla con Gennaro Ravizza, a studiare nuove tecniche agricole, ed in particolare l'introduzione di prati artificiali, anche questo un tenersi in riserva, insomma, che l'avrebbe abilitato non a caso ad assumere la presidenza della giunta esecutiva incaricata di amministrare il gettito della censuazione e della fondiaria all'indomani immediato della legge 21 maggio 1806 sul Tavoliere di Puglia, nonché della cassa d'amministrazione a questo scopo istituita, in attesa di succedere a Giuseppe Poerio quale secondo intendente di Capitanata27 bis.
Proprio quella legge, che sanciva le vedute proprietarie e privatistiche di Melchiorre Delfico nel 1788, l'anno dal quale abbiamo preso le mosse, induceva presumibilmente Liberatore, nel giugno-luglio 1806, a dare l'ultima mano ai suoi Pensieri ed a metterli a stampa, con un breve cenno in appendice a prendere atto della legge del 6 agosto abolitrice della feudalità.
Anche Borrelli stava lavorando in quei mesi ai suoi Principi di zoaritmia, che sarebbero stati pubblicati ai primi dell'anno successivo, con una dedica "all'ombra di Rosina Scotti" ed un ricordo dello zio Marcello, annoverato tra i "forti immolati per la mano della barbarie" che non ci interessano esclusivamente in chiave patetica e patriottica:
Ricevi, o figliuola della virtù, se non i primi i più teneri omaggi del talento e del cuore I primi le sono stati resi dall'attuale giudice del tribunale straordinario della Calabria Pasquale Liberatore28 ne' suoi eruditi, sensatissimi e patriottici Pensieri civili economici. La provincia di Chieti debbe ad essi i migliori progetti di riorganizzazione29.
In realtà era proprio quest'ultima, nel senso tutto francese e moderno del termine, al centro dell'esordio di Liberatore, a confermare non solo la prontezza con cui egli recepiva le novità del 1806 ma anche e specialmente l'analogia di presupposti e di obiettivi sulla quale si era preparato a recepirle:
Nell'imminente organizzazione che vanno a ricevere le nostre provincie, quella di Chieti osa far pervenire i suoi voti fino ai piedi del rigeneratore della nazione napoletana.
Ché in verità di rigenerazione, e radicale, si trattava, a cominciare dal codice, in uno stato di cose le mille miglia distante dalle rievocazioni ottimistiche di Borrelli e di Nicolini (sulla strenua e coraggiosa militanza di quest'ultimo in favore della continuità prima e dopo il 1806 avremo modo di soffermarci ampiamente) che viceversa anche il tardo Liberatore non avrebbe mai fatto proprie30 fermo nella raffigurazione di un regno di Napoli
la di cui legislazione è formata da quell'immenso complesso di casi presso che tutti particolari, che mette capo nella grandezza e nelle vicende del Lazio, nel vario dispotismo de' Cesari, nella diversa barbarie de' nuovi conquistatori, nelle pie frodi chiesastiche, nella conculcatrice politica viceregnale31, nel cieco incoerente impero de' re, e nell'ammasso indigesto di usi eterogenei e di giudizi sovente contradditori
secondo la dimostrazione fornita, una volta per tutte, da Melchiorre Delfico, la cui stroncatura della giurisprudenza romana il Nostro non si sarebbe peraltro sentito di condividere sino in fondo32.
Il codice, dunque, quanto alla cui coerenza col sistema politico napoletano Liberatore si astiene da ogni decisione, rimettendosi a Giuseppe e riservandosi in tal modo implicitamente il suggerimento di modifiche che avrebbe caratterizzato il saggio del 1814.
Per il momento, nel 1806, e prima della legge del 6 agosto, il problema pressante è quello della feudalità, a proposito del quale Liberatore preferisce attestarsi sulla linea di Filangieri e Palmieri, recupero dell'aristocrazia come ordo a sostegno della monarchia ma non privilegiato, conservazione di titoli, rendite e ordini cavallereschi, l'honneur, insomma, tanto caro a Montesquieu, ma niente diritti feudali "odiose usurpazioni e mezzi atroci di oppressione" secondo quanto già si è cominciato sistematicamente a fare per iniziativa del Di Gennaro duca di Cantalupo:
Non sono il nemico del baronaggio, né mi lascio trarre dalla corrente de' publicisti moderni i più accreditati, che pel bene universale ne declamano l'abolizione Io non so se nella costituzione che forse avremo rimarranno i feudi, ma dovrebbero assolutamente riunirsi allo Stato le giurisdizioni per togliere quell'odiosa differenza tra città demaniali e terre baronali che tanto distrugge la politica eguaglianza.
Liberatore aveva l'occhio alla sua Lanciano ed alla causa più che secolare contro gli Avalos marchesi del Vasto, un municipalismo appassionato che più avanti gli avrebbe suggerito di proporre la riapertura del porto di S. Vito, la restituzione della fiera, soprattutto l'installazione di un tribunale di prima istanza, che nel gennaio 1809 si sarebbe eretto addirittura in forma di magistratura d'appello, non sappiamo fino a qual punto per interessamento dei personaggi chietini dei quali ci stiamo occupando (ma della provincia, nessuno del capoluogo!) e solo nel maggio 1817 si sarebbe trasferito all'Aquila33.
Per il momento, a parte l'excursus storico su Lanciano, culminante con Championnet, che l'aveva dicharata "centrale della provincia", una soluzione amministrativa che il Nostro non vedrebbe di malocchio in bilanciamento a Chieti, le istanze riformistiche generali sono le più assillanti, da quelle giudiziarie ed amministrative (gratuita amministrazione della giustizia, abolizione della venalità degli uffici con risarcimento, unificazione della giurisdizione locale con pronta eliminazione di quella doganale, eleggibilità dei giudici da parte di un parlamento universale comunitario opportunamente rinnovato e dinamizzato) alle riforme dell'istruzione, accentrate su università provinciali, ed a quelle finanziarie, miranti a proporzionare i tributi alle capacità abolendo il focatico e concentrandosi sulla fondiaria e sulla liquidazione dei demani "avanzo delle barbarie de' nostri padri" al pari dei diritti proibitivi, a cominciare da quello delicatissimo del sale.
Quanto specificamente ad Abruzzo Citra, l'intervento governativo avrebbe dovuto aver di mira l'identificazione delle "sorgenti della ricchezza" nell'agricoltura, nelle arti e nel commercio, allo scopo di "rapprossimar gli estremi al più che sia possibile", secondo l'ammonimento di Rousseau.
La forbice tra l'emigrazione bracciantile e la scarsezza dei raccolti, l'insicurezza delle campagne donde l'impossibilità di una colonizzazione razionale, la mancata utilizzazione delle acque del Sangro e dell'Aventino per i lanifici di Palena e della zona contermine, le prepotenze feudali che impediscono il completamento della litoranea della Puglia e soprattutto il passaggio dei fiumi, insieme con le rivalità municipali, tutto ciò tratteggia per Abruzzo Citra un quadro largamente prevedibile ma non per questo meno suscettibile d'interventi particolari, che Liberatore sostanzia nella rivitalizzazione della struttura confraternale in forma di "compagnie agrarie" o altrimenti assistenziali, appoggiate dai monti frumentari, nella canalizzazione del Pescara, in una rete organica di ponti34.
I Pensieri costituivano la testimonianza concreta, tangibile, della maturità con cui la classe dirigente formatasi in Abruzzo Citra nell'ultimo quindicennio del Settecento era in grado di recepire, assimilare e soprattutto far rapidamente fruttificare le sollecitazioni del nuovo regime.
Perciò esso si avvalse con prontezza, ed al più alto livello, della sua collaborazione, Nolli e Liberatore, l'abbiamo visto, rispettivamente in Capitanata ed in Calabria, donde l'avvocato lancianese sarebbe passato nel 1808 procuratore generale alla gran corte criminale dell'Aquila, dove avrebbe lasciato fama duratura di rigore35, Borrelli nel 1807 alla segreteria della commissione feudale e due anni più tardi a quella della prefettura di polizia, che gli avrebbe procurato un'ardua convivenza col ministro Maghella ed il trasloco, con pratico danno finanziario, alla gran corte civile di Napoli36, Nicolini rimasto avvocato dei poveri alla conquista francese e solo nel novembre 1808, a quanto pare contro la sua volontà, designato alla procura generale della gran corte criminale di Terra di Lavoro, il De Thomasis, infine, subito nell'ottobre 1806 sottintendente di Sulmona, e dopo pochi mesi, nel luglio successivo, intendente di Calabria Ultra.
L'atmosfera del trapasso sarebbe stata rievocata col consueto fervore, trent'anni più tardi, nell'agosto 1835, nell'Elogio dedicato alla memoria di Amodio Ricciardi che Pasquale Borrelli pronunziava in casa di Giuseppe Poerio sintetizzando l'esperienza di una generazione in quella di uno dei suoi più cospicui e rappresentativi esponenti proprio in quell'ordine giudiziario e più latamente giuridico che è il protagonista del nostro discorso37:
Innanzi di spiegare presso questo collegio (scil. la magistratura) le proprie funzioni, era uopo formarlo. Era uopo bandire, senza punto irritare, le antiche abitudini: era uopo farne sorgere gradatamente delle nuove, senz'aver l'aria d'imporle: era uopo insegnare, senza prender giammai la fisonomia del maestro: ed a forza di lodare il poco era uopo spingere destramente gli animi al molto. In opera sì disagevole e la soverchia lentezza e la fretta soverchia avrebbero potuto essere fatali all'amministrazione della giustizia. Indarno il saper legale avrebbe avuto l'ambizione di giunger da sé solo al fine prefisso. Era mestieri congiungergli quella modestia disinvolta che, senza urtar l'amor proprio, istruisce e dirige: quella purità d'intenzione che disarma la calunnia: quell'amor di giustizia che sorprende ed edifica, pur quando dispiace.
Quasi contemporaneamente ad Amodio Ricciardi, come sappiamo, scompariva il Petroni, e qui era il Nicolini38 a calare nel concreto dell'attività quotidiana del responsabile di un'amministrazione periferica ciò di cui Borrelli aveva delineato la "filosofia":
Sue furon la divisione territoriale, la formazione de' decurionati e de' consigli distrettuali e provinciali, la istituzione de' collegi e delle scuole primarie, la forma e la ripartizione della coscrizione militare e de' tribunali, le prime traccie delle strade interne, le prime linee di separazione tra l'amministrativo e il giudiziario nella provincia39, le prime applicazioni delle leggi abolitrici della feudalità e de' dritti proibitivi.
L'uomo che aveva saputo meglio congiungere nella propria personale attività la poesia di Borrelli e la prosa di Nicolini, per così dire, era stato il loro amico e comprovinciale Giuseppe De Thomasis, quanto meno per quel che sappiamo di lui dall'abruzzese Egidio Grilli, in attesa che opportune ricerche ci facciano conoscere qualche cosa di più della sua successiva molteplice attività in Calabria e nella capitale40.
Dall'ottobre 1806 al luglio 1807 sottintendente di Sulmona
paese mancante di ogni risorsa, avvilito dalle passate sciagure, nel quale le piaghe dell'anarchia sono ancora fresche
(il riformatore intransigente che è De Thomasis non parla, naturalmente, dell'abolizione del regime doganale e dell'avvio dell'affrancamento del Tavoliere, che aveva sovvertito alla lettera una vasta zona appenninica tradizionalmente e compattamente armentaria) egli avanzava infatti con immediata concretezza la proposta, che si sarebbe realizzata tra il marzo ed il luglio 1807, per la bonifica di circa 8 mila ettari della conca peligna grazie alla riapertura ed al riassestamento dell'antichissimo canale di Corfinium, ora diventata Pentima, allo scopo di far rientrare dall'Agro romano la gioventù emigrata nella stagione invernale, e così sottrarla al brigantaggio.
Coinvolgeva inoltre il De Thomasis la pubblica opinione con l'immissione di una sorta di assegnati mensili e con una serie di appalti particolari, il cui governo peraltro non poteva non rimanere affidato all'aristocrazia ex feudale, con le conseguenze e le vischiosità del caso.
Quest'ultima clausola, ed il paternalismo tanto dei presupposti quanto delle finalità dell'impresa, s'inquadravano perfettamente e precocemente nella filosofia della continuità propria della monarchia amministrativa in Abruzzo a livello ambientale, ma che vedremo tra poco ragionata compiutamente da Nicolini nella sua cornice culturale, e nella più impegnativa delle circostanze.
Essa s'irrobustiva, peraltro, nel sistema di De Thomasis volto alla formazione di una classe dirigente post gesuitica (a Sulmona c'era stata la Compagnia, non c'erano stati gli Scolopi, come invece, in Abruzzo, oltre che a Chieti, soltanto a Lanciano ed a Scanno) con un collegio regionale d'istruzione ed educazione istituito a Sulmona nel maggio 1807, affiancato da scuole di disegno e da una biblioteca, che sarebbero rimaste di massima sulla carta.
Simile sorte sarebbe parimenti toccata all'ambizioso progetto per un'autentica università provinciale (si rammentino le analoghe idee di Liberatore), anch'esso comunque indicativo della necessità di prendere le cose da lontano, se s'intendeva riassestare lo sbandamento strutturale della società post armentaria, denunziato così drasticamente dall'insorgenza, e soprattutto dalla disoccupazione od emarginazione di migliaia d'individui e d'intere comunità e zone appenniniche, che intorno alla pastorizia si erano strutturate.
Il 14 novembre 1808, mentre gli amici e conterranei Borrelli, De Thomasis e Liberatore lavoravano rispettivamente a Napoli, Monteleone ed Aquila, il Nicolini era nominato a S. Maria di Capua.
All'infelice D'Astrea raggiunto dalla spada ultrice Scudo io finor, d'un Dio non senza aita, La stessa ultrice spada ecco ho brandita, Campion d'Astrea Ma d'alto imposte, e non richieste, io prendo Le insegne sue.
Sembra sincerissimo, e significativamente sincero, in questo rammarico per lo scambio della toga d'avvocato con quella di magistrato, Nicola Nicolini in questo sonetto datato 7 gennaio 180941 lo stesso giorno del discorso d'insediamento quale procuratore generale nella gran corte criminale, stampato col titolo istruttivo ed eloquente Del passaggio dall'antica alla nuova legislazione nel regno delle Due Sicilie42 e che qui riassumiamo e citiamo nei suoi fondamentali, importantissimi concetti.
Una successione di leggi, nella progressione assidua de' bisogni civili e de' lumi, dettandolo le cose stesse, le ha sì portate a questo termine che noi, per isnodare ed applicare le leggi nuove, non faremo altro che richiamarle, con la storia legale alle antiche.
Nicolini enuncia in esordio il postulato machiavelliano del "ritiramento a' principi" che gli sarà sempre carissimo, ma vi affianca, nella prospettiva comune della continuità, il concetto tutto vichiano della "storia legale" che attende di essere schiarito nello svolgimento del discorso.
Oggi si è fatta di tante leggi una sorta di revision secolare; ed il passaggio dalla vecchia alla nuova legislazione è assai meno sensibile di ciò ch'ogni volgare può scorgere Nel regno dove nacque Filangieri nulla può esser nuovo di quanto andrò divisando La legge penale, lungi dall'esser copia della legge penale francese, ha le sue prime disposizioni generali tratte dal Filangieri
(è notevole questo discrimen analogo a quello di Liberatore, ma con un'accentuazione polemica e formalistica assai più risentita che in lui).
E Nicolini prosegue, affrontando un tema sul quale Liberatore sarebbe stato assai meno ottimistico nei confronti del passato e Francesco Ricciardi, come ministro, legalisticamente intrattabile:
Noi dobbiamo celebrare nei giudizi i principi umanissimi che, sviluppati da' nostri giuspubblicisti, temperavano appo noi quell'arbitrio il quale imperava nelle cause per l'applicazione delle pene. Senonché oggi ogni arbitrio è cessato: niun fatto può dichiararsi punibile se non è tale espressamente dichiarato dalle legge; niuna pena può essere applicata se non è dalla legge indicata qual sanzione espressa dell'infrazione.
Sembra invece che Nicolini sottovalutati in certo senso ciò che con maggior fervore di novità aveva auspicato Liberatore nell'attesa legislazione francese
La parte che può apparire più nuova è la giurisdizionale Ridotte ad unità tutte le giurisdizioni, l'abolizione della feudalità, di questo flagello ignoto ai nostri paesi quando Capua era Capua (sic!), cospira meravigliosamente alla restaurazione della forza necessaria a' giudizi
prima di tornare, una volta dissoltisi i fantasmi della barbarie gotica, all'illustrazione di ciò che gli sta massimamente a cuore:
Noi non cominciamo con la novella legislazione una novella civiltà ma proseguiamo in quella che si godeva (sic!), sciolti però dalle difficoltà del numero e contraddizione delle leggi43, distrigati dalle autorità incerte di oscuri scrittori, purgati nell'aperta luce di semplici e ben collegati e fecondi principi, certi di noi per forme sicure d'interpretazione, rendute intelligibili e popolari per la sostituzione del linguaggio universale d'Italia al gergo barbaro e basso insinuato nelle leggi e ne' giudizi dalla ignoranza e da municipale mal inteso amor proprio44.
La civiltà di cui godeva il regno di Napoli è quella che viene sintetizzata nell'introduzione storica, ferma nel prendere le distanze, anche qui in sintomatico dissenso da Liberatore, dall'empietà e dallo scetticismo di Giordano Bruno, ma tenace nel rivendicare ad una linea costante dall'inevitabile Ciccio d'Andrea del Redi fino a Giuseppe Pasquale Cirillo, attraverso Niccolò Capasso, la riduzione ad unità quanto meno concettuale della legislazione del regno, grazie ad un diritto romano visto anche qui ben più favorevolmente che non da Liberatore, a non parlare di Delfico.
Ed anche nella conclusione pare di poter vedere una certa divergenza rispetto a quel "tempio dell'alleanza tra la filosofia e la storia del diritto" che Mancini avrebbe plasticamente scorto nella mente di Pasquale Liberatore45 allorché Nicolini si risolve ad esplicitare la densità vichiana del concetto di storia legale in termini forse leggermente deludenti:
Filologia e giurisprudenza sono i due motori che svolgono a poco a poco e rendono popolari le massime della filosofia civile, dal che i mezzi e l'opportunità al legislatore di ricondurre tutta la sparsa legislazione a' principi suoi in un codice
non altro, insomma, quest'ultimo, se non una sorta, essenzialmente, di razionalizzazione restauratrice, nella continuità di filosofia civile.
Nel novembre 1809, intanto, mentre il procuratore generale Nicolini, proprio in vista di una tale razionalizzazione, metteva a stampa e diffondeva una Circolare agli ofiziali della polizia giudiziaria della provincia di Terra di Lavoro, ed all'indomani del ritorno di De Thomasis in Abruzzo in qualità di ripartitore demaniale (vi torneremo tra breve) il portafoglio della Giustizia veniva assunto, dopo Cianciulli e la breve permanenza di Zurlo, da Francesco Ricciardi, la cui grandeggiante personalità si stagliava subito come protagonista, tra l'altro con la circolare sulla sorte dei detenuti e la riforma penitenziaria, emanata a pochi giorni dall'incarico ministeriale, il 22 novembre 1809, che poneva non a caso l'arbitrio al centro della propria riflessione e sarebbe stata citata e lodata come esemplare proprio da Nicolini46:
Chiuse le prigioni a' mandati illegali, e perseguitandosi con egual severità gli arresti arbitrari, scomparirà per sempre questo abuso distruttore d'ogni sicurezza individuale, la quale costituisce un oggetto così essenziale del vostro ministro come lo è la persecuzione de' delinquenti.
Questo dell'arbitrio e dell'illegalità in genere, ampia a coinvolgere eventualmente i possibili risvolti deteriori della giurisdizione militare, sarebbe stato, com'è noto, terreno di asperrimi e caratteristici scontri tra Ricciardi e Zurlo ministro dell'Interno, sia che nel maggio 1811 il gran giudice si pronunciasse per l'amnistia e contro le esorbitanze di Manhés
I preti, i canonici, i parroci, sono costretti a marciare armati. Questo spettacolo contrario alle leggi ecclesiastiche scandalizza il popolo; bisogna rispettare anche i pregiudizi, quando sono generali, non si deve urtare l'opinione47
sia che nell'aprile 1814 si elevasse a massime generali dal particolare dibattito circa l'adozione di misure straordinarie in Abruzzo:
L'arbitrio è il principale difetto di un governo Lo spirito pubblico non si dirige né con fogli pubblici né con scritti incendiari. Sono queste armi che hanno perduto la loro forza. Nel regno le popolazioni sono divise, altre sono nemiche, talune inclinate al male, la maggior parte indifferenti. Contro le inclinate al male si debba procedere con molto rigore ma nelle forme legali Da tutta la classe dei proprietari del regno si desidera l'adempimento delle promesse, molte volte reiterate, di presentarsi la costituzione48.
Ma forse di maggior interesse, nel nostro ambito attualmente circoscritto, è la valutazione che di Francesco Ricciardi e della sua opera fornì il gruppo abbastanza omogeneo, ed a lui di massima profondamente affine, di cui ci stiamo occupando, sia nella dialettica quotidiana e, per così dire, militante, dell'esercizio della magistratura, sia nella più riposata prospettiva e considerazione storica.
Ci sia consentito peraltro a questo punto aprire una sorta di parentesi per seguire l'iter di Giuseppe De Thomasis, il cui ufficio di ripartitore demaniale lo poneva ovviamente in assai più stretto contatto con Mosbourg e con Zurlo anziché con Ricciardi, fino almeno all'aprile 1812 quando, avendo rifiutato la designazione ad intendente di Cosenza, anch'egli entrò, come consigliere di Cassazione, alle dipendenze del giurista foggiano, dove sarebbe restato fino all'ottobre 1813, allorché avrebbe assunto l'ufficio di procuratore generale della corte dei Conti.
Fin dal luglio 1807, nei rapporti conclusivi su biblioteca e scuole di disegno a Sulmona prima della partenza per la Calabria, De Thomasis aveva insistito sulla priorità d'iniziative del genere
distruggendo gli errori a furia d'istruzione e diradando l'ignoranza con la luce delle umane coscienze.
Ora che tornava in Abruzzo, con sede regionale a Chieti, donde il 20 maggio 1810 emanava un primo proclama circa i criteri da seguire nella ripartizione dei beni feudali e demaniali, biblioteca e scuole di disegno erano state messe nel cassetto in favore della gran corte civile istituita a Lanciano ma soprattutto della repressione militare di Manhès, sicché l'aspetto sociale, di disoccupazione di massa, del problema post pastorale erompeva con tutta la sua forza.
Non a caso il proclama di Chieti precedeva di pochi giorni l'impostazione del canale del Sagittario come corrispondente di quello di Corfinio sul versante opposto della conca peligna, mentre se ne progettava uno analogo per il medio Aterno, le cui acque venivano nel frattempo restituite all'uso comunitario, e si studiavano strade che dalle gole del Pescara a Popoli s'irradiassero in direzione dell'Adriatico e di Teramo.
Ma soprattutto con una lettera a Delfico 5 luglio 1810 ed un rapporto ministeriale dell'11 settembre successivo, seguito il 30 ottobre da un secondo proclama collegante intelligentemente il fiorire del brigantaggio con la ripartizione demaniale in corso, e minacciante perciò "come i veri nemici dell'umanità" coloro che dissuadessero e spaventassero i poveri perché non richiedessero la terra, De Thomasis, avendo l'occhio a vecchie abitudini migratorie dalle zone attualmente scottanti dell'insorgenza, proponeva il trasferimento degli abitanti della valle Castellana e della montagna di Roseto, sul versante teramano del Gran Sasso, nella zona del basso Chietino compresa fra il Sangro ed il Trigno.
Si sarebbe trattato, nel pensiero del Nostro, di subordinare i turbolenti albanesi molisani ed abruzzesi, protagonisti del Novantanove e dei suoi strascichi "anarchici", al comunitarismo ben più organico e disciplinabile dei pastori appenninici, ed intanto chiudere la pagina dell'insorgenza e dell'armentizia ad un tempo nella montagna teramana, che di entrambe era stata la roccaforte inesauribile sin da fine Cinquecento.
Il progetto di De Thomasis non ebbe neanche un principio d'attuazione, mentre nel dicembre 1810 la sua proposta d'istituire un liceo a Sulmona si fondava sull'importante riflessione che
nel resto degli Abruzzi l'educazione materiale e morale è tuttavia la proprietà dei preti, il che sotto molti rapporti è un male, ma nella provincia di Aquila è la proprietà di niuno, il che è assai peggio.
Anziché la colonizzazione in grande stile, alla quale si era opposto specialmente il ministro Zurlo, fu adottato, tra il febbraio 1811 e l'aprile 1812, quando De Thomasis lasciava l'ufficio abruzzese dopo essersi a più riprese lamentato della mancata collaborazione di Teramo e del sabotaggio di Winspeare, tutte cose che andrebbero definite e chiarite, l'alquanto più modesto criterio di popolare i feudi rustici di Roccapizzi e Carcere sull'alto Sangro, a cui fu imposto il classicheggiante nome di Ateleta in quanto esenti da tributi.
Si trattò di una realizzazione circoscritta ma quanto mai significativa perché, insieme con i canali peligni e con la strada considdetta Napoleonica sull'opposto versante dell'altopiano delle Cinque Miglia, rimane il solo grosso risultato tangibile di modificazione ambientale nel periodo murattiano in Abruzzo, e proprio ai margini o nel cuore del mondo pastorale, a ribadirne la centralità, quanto meno problematica, all'interno del tessuto regionale.
Torniamo ora a Francesco Ricciardi ed anzitutto a quella sorta di bilancio del suo primo triennio ministeriale che viene tracciato da Nicola Nicolini49 interrompendosi significativamente a fine 1812, allorché, per ordine del gran giudice, egli scrive l'Instruzione per gli atti giudiziari di competenza dei giudici di pace di cui parleremo tra breve.
Ricciardi, esordisce Nicolini con parole che vanno lette in controluce a quanto si è visto più sopra, si distingueva come avvocato
pel sistema di trarre non già da' forensi, le cui citazioni fissavano a' suoi tempi la ragione di decidere le cause, ma dall'intima filosofia e dal diritto pubblico le sue difese.
La vichiana storia legale sembra pertanto qui assumere una densità ed un ritmo più propriamente storicistici rispetto alla giurisprudenza un po' formalistica ed esteriore delle precedenti formulazioni nicoliniane.
Comunque ciò sia, ecco Francesco Ricciardi subito nel 1806 segretario di Stato nel consiglio di Stato con diritto di voto e nel novembre 1809 ministro della Giustizia in uno stato di cose troppo evidentemente egemonizzato da Cristoforo Saliceti al dicastero della Polizia (dove, non si dimentichi, era Borrelli, un chiaroscuro che andrebbe seguito con cura) donde l'esigenza di eliminare codesta egemonia, di rivendicare l'indipendenza dei magistrati, di proibire a Saliceti di corrispondere con essi se non tramite il Guardasigilli.
Nicolini si era trovato al centro di queste radicali novità, perché Ricciardi non aveva tardato, nell'agosto 1810, a chiamarlo da Capua alla presidenza della gran corte criminale di Napoli, e ad insediarlo nel novembre successivo, accanto a Poerio, Winspeare, Saponara e Amodio Ricciardi, nella commissione incaricata di tradurre ed adattare i codici francesi, che avrebbe concluso i suoi lavori tre mesi più tardi.
Nel frattempo, ricorda Nicolini, lavorava in un'altra commissione, quella del consiglio di Stato per lo scrutinio dei magistrati e la valutazione dei meriti che avevano fatto concedere la toga, un compito delicatissimo, che era stato espletato nell'aprile 1811 con la messa a ritiro, ad un terzo del soldo, di una buona trentina di magistrati, per i quali era stata accertata non più che una vera o presunta persecuzione antigiacobina.
Sappiamo quanto placidamente e contemplativamente Nicolini avesse attraversato le burrasche del Novantanove ed i loro riflessi napoletani e provinciali50.
Ma è molto significativo che trent'anni più tardi anche Pasquale Borrelli, nel suo Discorso pronunziato presso al feretro del conte di Camaldoli Francesco Ricciardi presidente interino della Società Reale Borbonica51 si soffermasse in particolare sull'epurazione della magistratura, e sulle sue conseguenze, come uno dei risultati più consistenti e durevoli del governo di Ricciardi:
Non la sua ambizione, ma la riputazion del suo merito lo indicò agli stranieri che nel 1806 occuparono il regno. Dopo il volger di pochi anni ei fu collocato nell'apice dell'amministrazione della giustizia: e parve allora che si assidesse nel natural suo posto52 Una magistratura sapiente, incorrotta, operosa, circondò questo capo: e benché di fresco educata nelle nuove leggi civili, potè sostenere il confronto con le più illuminate d'Europa53.
All'interno di questa magistratura, nell'aprile 1812, mentre si deliberava di far entrare in vigore col 1° ottobre successivo il nuovo codice penale, Nicola Nicolini assumeva l'ufficio di avvocato generale della Cassazione, avendo a colleghi Winspeare e Filippo Cianciulli, Poerio come procuratore generale, e Giuseppe De Thomasis sedendogli dirimpetto, quale consigliere, nella magistratura giudicante.
Fa che l'util di ognun forte io ritiri Verso i principi e l'unità del dritto
invocava il Nostro della Giustizia personificata54 nell'atto d'insediarsi, il 2 giugno 1812, con un discorso55 che Raffaele Feola giudica "bellissimo" in quanto conferma che
i limiti imposti alla Cassazione dovevano essere un baluardo contro il mai sopito potere dei magistrati56
ma probabilmente va letto in ambito più vasto, come caposaldo cospicuo di quella filosofia della continuità che abbiamo visto caratteristica di Nicolini, e che sostanzia il suo concetto di storia legale.
Il tema preso a trattare dal Nostro, infatti, ci informa Fausto Nicolini57è significativamente La Corte Suprema di Giustizia nelle sue relazioni con le antiche istituzioni del regno, e l'esordio non ne potrebbe essere più pugnace nel ravvisare non più che "miglioramento e continuazione" nella nuova rispetto all'antica legislazione, entrambe rinvenendo il proprio fondamento comune nel diritto romano ancorché alterato, sicché l'una poteva dirsi dall'altra "non solo preconizzata ma quasi germogliata" attraverso un processo a sua volta definibile "non pur an alisi ma filiazione".
E Nicolini prosegue, con un linguaggio tutt'altro che equivoco:
Noi, prima delle leggi nuove, non eravamo certo senza legge né giurisprudenza Sì mancava, è vero, come mancava a tutta l'Europa, un corpo intero e concorde di leggi58 Non vi ha dubbio però che in ogni materia luminosi erano i nostri principi Tutto qui menava alla unità e perfezione de' principi legali, ed alla fusione di tante e sì diverse leggi in un codice solo.
Uno dei consueti excursus storici giova a confermare un'affermazione impegnativa come questa ed il mito che le è irresistibilmente alle spalle, quello dell'indipendenza napoletana, dal momento che l'età vicereale, nella più classica delle presentazioni possibili,
fu l'epoca che spopolò, impoverì e rendette nidi di malfattori e di briganti le provincie del regno Se qualche vicerè ha sentito mai alcun stimolo di gloria, niun d'essi al certo fu accessibile a' sentimenti di vera giustizia e di amor nazionale.
E riprende la rivendicazione della continuità, avendo Roma e Vico quali strutture portanti:
La pubblicità della discussione, intesa a ridestar ne' giudici il pudore della giustizia, veniva appo noi portata quasi all'eccesso59 Le leggi propriamente dette civili, se per la maggior parte ci son venute di Francia, ritengono in ogni articolo la fisonomia ed i principi della romana origine e della italica sapienza: le leggi penali e di procedura penale meno dalle francesi che dalle romane o dalle nostre patrie leggi dipendono?
La conclusione formale, dice bene Feola, è l'ammonimento alla Cassazione "corpo conservatore delle leggi" a non esorbitare dalle proprie ben precise funzioni:
Voi dichiarate nulli e rescindete tutti gli atti che travalicano il segno.
Ma la conclusione sostanziale, storica, che vorrebb'essere storicista, ed è senza dubbio squisitamente politica ben al di là dell'opinabilità estrema della definizione, è tutt'altra, è quella che ravvisa nella Cassazione d'importazione francese né più né meno che
l'immagine, anzi l'erede ex asse di quell'antichissimo Sacro Consiglio de' di cui presidenti si formò poscia la camera reale60.
L'unità più o meno machiavelliana del diritto "richiamato a' suoi principi" è dunque essenzialmente l'unità infrangibile della tradizione giuridica napoletana e della storia legale sollevatasi attraverso la giurisprudenza a filosofia civile: questo è il punto d'arrivo sistematico di Nicola Nicolini dinanzi a Francesco Ricciardi, per ordine del quale compila in quell'estate 1812 la Instruzione per gli atti giudiziari di competenza dei giudici di pace sicché, lo afferma a tutte lettere nella dedica datata 12 settembre al gran giudice
il mio lavoro è più un repertorio di disposizioni ministeriali che un'opera mia.
Essa dovrà dunque leggersi in filigrana, in contrappunto, fra Ricciardi e Nicolini, con in testa una sentenza di Filangieri che per la verità si sarebbe potuta applicare solo con grandissimo stento a quella tradizione di Castel Capuano della quale il giurista di Tollo andava tanto orgoglioso:
La parte della legislazione destinata a regolare la procedura criminale dev'essere e la più semplice e la più chiara e la più inviolabilmente eseguita: altrimenti non vi è delitto, per manifesto che sia, che non possa rimanere impunito; e non v'è innocenza, per conosciuta che sia, che possa essere sicura della sua tranquillità e della sua pace61.
Questo contrappunto si fonda, per quanto concerne Ricciardi, essenzialmente sulle sue dense e robuste circolari62 mentre Nicolini interviene con una serie di commenti e di richiami che dimostra come e quanto l'esigenza di efficientismo e di razionalizzazione sia stata assimilata da lui
Invano io mi ho aspettato finora quella uniformità, quella precisione, quella esattezza di procedura che, stabilita dalla legge per garantire il giudice da ogni funesta omissione, lo conduce passo a passo, e quasi per mano
ma anche con una seria e fattiva distinzione tra il compito dello storico e quello dell'inquisitore, tenuto, quest'ultimo, ad una rigorosa applicazione della lettera della legge, senza doverne indagare pericolosamente lo spirito:
Se non si vuol rischiare di sostituire all'opera della verità quella della fantasia, del sempre aversi presente che il processo è tanto più lodevole quanto è più fedele.
L'Istruzione è peraltro soprattutto, forse, per l'antico avvocato che è Nicolini, e che le circostanze lo costringeranno di lì a pochi anni a tornare ad essere sino alla fine della sua lunghissima vita, compreso il prestigioso insegnamento universitario63 una sorta di patto solenne stretto con i magistrati nel senso di ravvivare insieme, grazie alla giurisprudenza, ed alla razionalizzazione intervenuta, il vecchio tronco della legislazione, che rischiava di poter rimanere infecondo, fine a sé stesso, senza la profonda, radicale trasformazione della società che magistrati ed avvocati hanno insieme il compito di comprendere ed interpretare nelle sue più riposte articolazioni e strutture:
È singolare come gli scrittori i più profondi si scaglino sempre contro l'ignoranza e la balordaggine de' magistrati, mentre la sapienza di questi corrigeva riduceva al giusto la barbarie de' legislatori Fortunatamente i tempi son cangiati. Il sommo legislatore ha troncato dalla radice ogni male Quale ufizio difficile e penoso è egli mai questo nostro? Fondato principalmente sulla profonda conoscenza del cuore umano, nulla di ciò che ci circonda è ad esso estraneo; il mondo fisico, il morale, il civile, tutto entra nella sua sfera; e finanché le usanze, i costumi, le particolari inclinazioni, il linguaggio de' più negletti borghi e de' mestieri più vili gli sono utili, anzi indispensabili. Chi non porta queste vedute nella investigazione de' fatti morali, sarà sempre scrivano e non giudice64.
Francesco Ricciardi intendeva ed apprezzava a dovere il concetto informatore che aveva presieduto alla fatica di Nicolini65 e gliene dava atto il 24 febbraio 1813 mostrando di aderire soprattutto al criterio organicistico che gli era alle spalle:
Tutto è a suo luogo, tutto è giudiziosamente adoperato, specialmente l'erudizioni di cui l'opera è ricolma, e che, lungi dal turbare l'ordine delle idee, spargono anzi del lume così sull'antico come sul rito attuale, e su quel che avrà luogo dopo la pubblicazione del nuovo codice d'istruzione criminale, e mostrano il nesso che tutt'e tre han fra loro.
Perciò il gran giudice ne disponeva l'invio d'ufficio ai procuratori dei tribunali di prima istanza66, il duca di Campochiaro ministro di polizia generale lo imitava il 17 marzo per gli intendenti lo stesso Zurlo ministro dell'Interno diramava l'8 maggio una circolare per farla acquistare dai sindaci, mentre ancora nel 1815 Donato Tommasi avrebbe giudicato in via ufficiale lo scritto del Nicolini
pieno d'idee utili e giuste relative alla vecchia ed all'attuale legislazione adatto ad agevolare il passaggio alla nuova legislazione che S.M. è intesa a pubblicare67.
A quella data, peraltro, molte cose erano cambiate, e non soltanto nella chiave meramente politica della restaurazione borbonica.
Il 13 febbraio 1814, mentre Petroni si accingeva a realizzare il disegno di De Thomasis per la suddivisione amministrativa di Calabria Ultra e Liberatore stava per scambiare la procura generale alla gran corte criminale dell'Aquila tenuta per sei anni, con quella di Napoli, dove già era stato presidente il più giovane Nicolini, Giuseppe De Thomasis, da soli quattro mesi, come sappiamo, procuratore generale alla corte dei Conti, veniva nominato da re Gioacchino commissario governativo per Benevento, dove avrebbe trovato quale segretario Pasquale Borrelli, anche lui, l'abbiamo visto, consigliere alla gran corte civile di Napoli dal 1812, e che due anni prima, su consiglio di Melchiorre Delfico68 aveva pubblicato nella "Biblioteca analitica di scienze e belle arti" e poi in opuscolo presso Nobile un trattatello Su la imitabilità de' poemi di Ossian che qui non abbiamo motivo di esaminare, benché l'estrosità eccezionale dell'autore vi si confermi in chiave preromantica, risolvendosi il quesito in senso negativo senza l'intervento della spontaneità e della passione.
De Thomasis, com'è noto, si sarebbe trattenuto a Benevento quindici mesi, fino al 21 maggio 1815, prima di riprendere il suo ufficio alla corte dei Conti69 un periodo breve, ma non tanto da non consentirgli di stendere un quadro della situazione ed un rapporto analogo, andati, come tutto il resto della documentazione che lo concerne, deplorevolmente dispersi, dopo l'arduo braccio di ferro che l'aveva opposto ad un avversario degno di lui, Louis de Beer, commissario di Talleyrand nel principato di Benevento.
Nel frattempo, il 21 maggio 1814, il ministro Ricciardi aveva insediato la commissione per la revisione generale dei codici presieduta da Poerio, e della quale faceva parte Nicolini, ma evidentemente sollecitava in privato anche altre collaborazioni, se è vero che il 20 dicembre Pasquale Liberatore avrebbe dedicato a lui, per i tipi di Agnello Nobile, il meritatamente famoso Saggio sulla giurisprudenza penale del regno di Napoli.
Parecchi anni più tardi, ridotto all'esercizio dell'avvocatura e dell'insegnamento privato dal "ripurgo" della primavera 1821, e dissertando, nel 1828, per Tramater, Sulle istituzioni giudiziarie del regno delle Due Sicilie cenno storico70 Liberatore avrebbe ricordato queste vicende, partendo dall'adozione del codice penale francese, dopo le interminabili incertezze protrattesi dal febbraio 1811 all'ottobre 1812,
con picciole variazioni che onorano la commissione incaricata del suo esame; e non v'ha dubbio che questo nuovo codice riempì innumerevoli vuoti, rifuse molti articoli, rese più complete le definizioni, classificò meglio i delitti, accrebbe e proporzionò il numero delle pene, diè più campo al magistrato, e presentò alla società una sicurezza maggiore. Ma questo codice tanto encomiato in Francia non soddisfece in questa meridionale Italia al voto dell'universale. La patria di Briganti, di Pagano, di Filangieri, attendeva qualche cosa di meglio.
L'analogia letterale nell'espressione non deve far trascurare il ben diverso spirito con cui Liberatore si riferisce alle novità francesi rispetto a Nicolini.
Comunque, nominata la commissione di revisione e dedicato il Saggio a Ricciardi, furono il successore di costui Tommasi ed il nuovo consesso borbonico nominato il 2 agosto 1815, su una linea che faceva capo ampiamente a De Thomasis71, a
quasi tutte adottare e proporre le deboli mie osservazioni
secondo quanto Liberatore constata con legittimo compiacimento, fino alla legge organica 29 maggio 1817 da lui incondizionatamente elogiata per i suoi tre caposaldi fondamentali (il potere giudiziario subordinato esclusivamente alla sua propria gerarchia, medesimezza di condizione identificata con quella di giurisprudenza, nessuna privazione di diritto se non per sentenza passata in giudicato) e forse non a caso di poco precedente l'assunzione da parte sua, il 12 luglio 1817, della presidenza della gran corte criminale di Napoli, di cui per tre anni era stato procuratore generale.
Quali erano state, a fine 1814, le "deboli osservazioni" di Pasquale Liberatore?
Mancini le riassume con brillante efficacia, lodando a buon diritto nel Saggio
filosofia di principi, originalità di pensieri, aggiustatezza di ordine, ed anche vivacità di stile
e segnalandone le denunzie emergenti, l'equiparazione fra il tentativo e il delitto consumato, il ricorso frequente alla pena di morte ed alle anacronistiche pene infamanti del marchio e della gogna, la sproporzione nei gradi della complicità, il silenzio sul pentimento, sull'ubriachezza, sull'omicidio in rissa, l'assenza di criterio quanto alla gravità delle ferite, l'ambigua impunità per il furto tra consaguinei, l'esclusione delle attenuanti nell'infanticidio per onore o nell'uccisione della figlia sorpresa dal padre "in turpe flagranza", ed ancora le considerazioni sul giurì, sulla grazia, e così via, che rendevano il Saggio, dopo trent'anni, tuttora attualissimo72.
Vale la pena s'intende, soffermarsi anzitutto su questi rigorismi di costume, che inducono Liberatore a sollecitare l'aggravante (e l'avrebbe ottenuta) per i furti commessi in chiesa o in tribunale, e ad appellarsi concitatamente a Filangieri contro la non punibilità del ratto consensuale della maggiore di sedici anni:
Questo distrugge l'idea della pubblica morale, il riguardo all'ordine della famiglia, il rispetto alla patria potestà.
Un tale rigorismo a fondo sacrale e sessuale trova la sua origine, oltre che in profondissime stratificazioni della mentalità collettiva, ancora una volta nello "spirito di perfezione" di Filangieri e di Palmieri che, in via generale (e lo si era visto all'Aquila!) il Nostro fa incondizionatamente proprio:
La legge sotto l'austera sua forma non attende che l'obbedienza, già per sé stessa spiacevole, né sa spogliarsi della sua inflessibilità per parlare agli uomini il linguaggio del buon padre di famiglia a' suoi figli. Lo scrittore che vi supplisce teme sempre di violarne la santità o scemare il rispetto che le è dovuto, e dubita che i suoi sforzi innocenti non si uniscano alle grida ingiuste o sediziose de' malvagi che aspirano a romperne il freno.
E tuttavia proprio dall'austerità inflessibile della legge, che non ammette "l'abuso della filosofia impiegata in difesa dell'umanità", che rifiuta, con Bentham, di preferire la libertà del colpevole alla condanna dell'innocente, che severamente denunzia, l'abbiamo visto in Nicolini,
il pericolo cui si esporrebbe il cittadino se si accordasse al giudice la facoltà d'interpretare la legge penale, specialmente se col pretesto d'indagarne lo spirito si opponesse questo all'espressione letterale
proprio da quell'austerità scaturiscono da un lato la dialettica della clemenza, e perciò della grazia, come unico mezzo che, al di là dell'onore invocato da Montesquieu, consente all'Inghilterra, e soprattutto alla giovane società nordamericana, di avviare "la riforma dei malfattori", secondo le vedute, sociali meglio che filantropiche, di Francesco Ricciardi, dall'altro la denunzia implacabile dell'arbitrio, che avvicina ancora una volta Liberatore al gran giudice, e non gli permette di aderire senz'altro alla prospettiva di continuità così cara a Nicolini, e preminente, lo vedremo ancora, nelle sue vaste ricostruzioni.
Liberatore confessa di limitarsi a riassumere ciò che con "somma robustezza" aveva scritto intorno al processo criminale Mario Pagano: ma ciò non toglie che la presentazione del mondo giuridico napoletano anteriore al 1806 sia in lui assai più scura che non nel giurista di Tollo:
Furon questi i grandi difetti dell'antica nostra legislazione criminale, mancanza di proporzione, mancanza di precisione. L'una e l'altra produssero l'arbitrio, e, tolto per conseguenza il pregio maggiore della legge, sconvolsero le idee della maggiore della legge, sconvolsero le idee della giustizia Tutte le pene furono straordinarie, niuna legge potea citarsi perché non era essa ma il magistrato che dettava la pena: si sostennero tutti gli errori, tutti i paradossi Oltre al favorir l'impunità de' colpevoli, (la procedura) metteva spesso in pericolo la libertà e la vita degl'innocenti essendo posta l'impunità del reo e l'oppressione dell'imputato nelle mani dell'inquisitore
donde l'indicibile "gioia del regno" al ritorno al processo accusatorio pubblico, che si staglia nella commossa pagina di Pasquale Liberatore come un'autentica liberazione, una Bastiglia napoletana che aveva finalmente fatto crollare vetuste tirannidi73.
Altre tirannidi ed altri imperi, è ben noto, si dileguavano in quel tramonto del 1814 e schiudersi dell'anno successivo, così fatale all'Europa ed a Napoli: ed è interessante osservare come i nostri protagonisti sintetizzassero e valutassero quest'esperienza a più o meno grande distanza di tempo, allorché la prospettiva cominciava a potersi strutturare come autenticamente storica, a cominciare ancora da Liberatore nel 183774:
Quel terribile uragano che sconvolse tutta Europa quando il grande de' troni crollò si fè sentir anche tra noi, e ci rese, meno per conquista che per lacrimevole abbandono (sic!) soggetti ad altra dinastia: ed ogni speranza di commercio svanì per i decreti di Milano e di Berlino che, dettati dal dispotismo e dall'ingiustizia, non ammisero potenze neutrali in tempo di guerra, ed attentarono al diritto pubblico universale; il che produsse l'ultima coalizione, e la caduta del despota ambizioso, che non cessò neppure allora di esser grande.
Liberatore resta dunque fermo al giudizio d'inadeguatezza politica per un riformismo borbonico ormai esaurito e, se scorge e denunzia i pericoli dell'egemonia napoleonica, non ne sottovaluta i risultati radicalmente innovativi, che solo fino ad un certo punto si sono riusciti ad integrare e perfezionare con la restaurazione75.
Tutt'altro è il panorama che l'ottantaquatrenne Nicolini, dal 1854 primo presidente della Corte Suprema, traccia meno di tre mesi prima della morte, il 12 dicembre 1856, parlando dinanzi alla classe di scienze morali dell'Accademia delle Scienze nella Società Reale Borbonica Della vita del marchese Giovanni d'Andrea.
L'insania e le infernali bestemmie della rivoluzione francese, coalizzate contro la metafisica e la teologia, sono infatti quelli che hanno sorpreso e commosso il ventenne Nicolini e il di poco più giovane discendente di Francesco d'Andrea all'interno del cenacolo del marchese Palmieri, in testa, più frenetica ancora, l'Italia del Nord, la quale
corrotta anch'essa, e insieme corruttrice insorse contro la patria gloria e la sapienza italica antichissima e sconobbe la stessa lingua del Lazio76.
A questo punto, peraltro, Nicolini introduce una presentazione singolarmente vichiana, e solo formalmente ed esteriormente manzoniana, di Napoleone, che gli giova a strutturare ancora una volta una continuità storicistica il cui banco di prova è costituito dall'empietà fine a sé stessa, dall'irreligione, dalla "pagana licenza del divorzio" alla quale d'Andrea non si era voluto sottomettere, rinunziando dopo appena due mesi, nel gennaio 1809, all'ufficio di giudice della gran corte civile di Napoli77 e cioè da un postulato morale, e magari da un pregiudizio moralistico che, lo vedremo, aveva sommerso anche Liberatore nei suoi ultimi anni, e dinanzi al quale il discorso giuridico, è più latamente politico, chiaramente si arresta:
Intanto volgeva al suo termine, affrettando il moto vorticoso della breve sua ruota, la trista genia Ella, caduta dall'intera giustizia, facea tutto il diverso da essa, e con più furore anche il contrario, per servire a' bisogni variabili, dettati, come a' bruti, da' sensi esterni corporei: indi intemperatissima, e di proprio peso in ruina, la sua forza scevra di consiglio. Ma Dio sempre provvidente, nell'Europa lacerata da guerre fraterne, suscitò un italo ingegno (sic!), che a passioni sì incomposte freno impose e silenzio, ed arbitrio in mezzo ad esse si assise. Costui i popoli dissociati costrinse a vivere con giustizia e celebrar la cognazione, che per la loro socievolezza nativa la Provvidenza Divina costituì in prima tra gli uomini. Quindi il codice, che prese tosto il nome di lui, si arricchì dell'antichissima sapienza degl'itali giureconsulti. Senonché, forse contro il grido della propria coscienza (sic!) non sempre ei ne fecondò il principio massimo, con l'unità del culto esteriore verso Dio. Però che dove la cattolica religione esige che sia sancita in suo nome e renduta sacra da' suoi ministri la indissolubilità del nodo coniugale, ivi per l'appunto ci discese a transazione con l'empietà non ancor doma78.
Non vi è dubbio, tuttavia, che il frutto più maturo e più organico della riflessione di pensiero del nostro gruppo sull'esperienza riformistica di governo che l'aveva visto protagonista sia rappresentato dall'Introduzione allo studio del diritto pubblico e privato del regno di Napoli di Giuseppe De Thomasis79 che, quantunque pubblicata postuma nel 183180 per i tipi della Pietà dei Turchini, circolava già da qualche anno manoscritta, o comunque era a sufficienza conosciuta nel suo contenuto, se è vero che Pasquale Liberatore aderisce già nel 1828 alla "dimostrazione rigorosa" dei dieci casi identificati da De Thomasis come quelli nei quali il giudice può contravvenire alla legge, donde l'intervento e la competenza della Corte Suprema, che il giurista di Montenerodomo circoscrive esattamente negli stessi termini precisati da Nicolini81 e che nel 1830 ancora Liberatore anticipa vivamente e diffusamente il concetto "dogmatico" della proprietà che, affermato da De Thomasis, sarebbe stato confutato con altrettanta vivacità, come vedremo, da Niccolò Tommaseo82.
Testimonianza critica autorevole di tale organica maturità dell'opera di De Thomasis è nella pagina di Benedetto Croce83 secondo la quale l'Introduzione
ha singolar valore di documento, perché attesta la meraviglia e lo sconcerto onde furono presi coloro che, educati nell'intellettualismo settecentesco, avevano bramato e domandato con tanta insistenza l'unificazione delle molteplici antiche legislazioni, e la formazione dei codici, per far cessare l'incertezza nell'interpretazione delle leggi; e ora, avuti i codici, vedevano risorgere perplessità, incertezze e dissidi d'interpretazione. Il De Thomasis, esso stesso uno di cotali illusi, s'industriava a ricercar le cause contingenti e a proporre i rimedi di quell'impreveduto ripresentarsi del vecchio inconveniente e non sospettava ciò che un suo tardo conterraneo e filosofo ora potrebbe dirgli, che questo inconveniente (se tale può chiamarsi) è nella natura stessa delle leggi, cioè di qualsiasi legge e di qualsiasi loro formula, e nasce dalla vita, che non si sta mai ferma e sempre si muove e cangia.
La testimonianza, s'intende, è da leggere in chiave, per così dire, rovesciata, giacché ciò che a Croce appare meraviglia, sconcerto, industria, destinato ad infrangersi miseramente contro i ben solidi baluardi della Filosofia della pratica, è in realtà esso stesso la vita "che non si sta mai ferma e sempre si muove e cangia", i giovani che vanno istruiti con le leggi vigenti e l'attuale terminologia senza disturbar Giustiniano ma senza altresì far propria la stroncatura di Melchiorre Delfico, il quale
mirò a ritrarre il carattere politico del legislatore, i vizi della costituzione di Roma, più che il merito delle loro dottrine e delle loro leggi
dal momento che i difetti vistosissimi di legislazione penale nel diritto romano
o non sono colpe o imputar si debbono alla costituzione politica di que' tempi, anziché al poco senno de' loro autori
uno storicismo che richiede prudenza e discrezione, e non la "profonda ideologia" di Savigny e della scuola storica, che vanno "ingombrando di tenebre la giurisprudenza attuale"84.
Quanto all'unificazione legislativa prodromo indispensabile dell'uniformità operativa, essa costituisce un presupposto razionalizzatore su cui tutti i riformatori, a partire, l'abbiamo visto, da Nicolini, non possono non trovarsi d'accordo, dal momento che, scrive polemicamente De Thomasis,
ogni uomo del Foro ha una sua propria religione, una moral sua, i suoi particolari pregiudizi che coltiva come Dei familiari.
Questo presupposto metodologico ha due corrispondenti sistematici, la proprietà e la famiglia, su cui De Thomasis costruisce rigorosamente la nuova filosofia civile, per dirla con Nicolini, che scaturisce dal codice:
I moderni, trattando ogni economia politica in modo da insinuar l'idea che ella possa star senza la morale e la giustizia, ne sottraggono le più solide basi Il rispetto de' figli a' padri, delle mogli ai mariti, e di tutti alle obbligazioni contratte, sono i primi garanti dell'ordine sociale85 Il pregio della proprietà consiste precisamente nella facoltà di goderne e disporne come più ne aggrada.
È precisamente su questo secondo caposaldo, definito nel senso che da De Thomasis veniva dicharata naturale sia la proprietà esclusiva dei prodotti della natura sia quella territoriale, sia pure per quest'ultima con l'intervento delle leggi sociali86 che si sarebbe concentrata la tarda critica di Tommaseo87 significativa tanto per l'autorevolezza dello scrittore, appartenente ormai ad una generazione che poco o nulla aveva in comune con i superstiti murattiani, quanto soprattutto perché, malgrado questa obiettiva sfasatura di criterio e di giudizio, Tommaseo fa ampiamente propria, in prospettiva storica, la filosofia della continuità tanto cara a Nicolini88 strumentalizzandola, magari, ai fini di quella democratizzazione della coscienza giuridica, per così dire, che è nel fervido auspicio della sua mentalità progressista e romantica.
L'antico ordinamento, osserva Tommaseo, presentava infatti senza dubbio
confusione strana che alla giustizia veniva dalle inopportune suddivisioni de' poteri e dall'accumulazione peggio che importuna. Né già la presente ordinazione è condotta, cred'io, alla possibile semplicità Ma in questo miscuglio degli ordini antichi l'intenzione sovente era buona, santa l'origine (Dinanzi alle) antiche istituzioni municipali dalla francese prepotenza (sic!) abolite ciascun vede le municipali franchigie (che gl'ignari di vera libertà chiaman privilegi) esser state innanzi la francese invasione più rispettate che poi
In quest'ambito di libertas comunale guelfa chiaramente, e naturalmente, prediletta dal Tommaseo, i giudici conciliatori venivano ad assumere un rilievo circa il quale ci dice molte cose l'attenzione riservata ad essi da Nicolini e, in subordine, da Liberatore, mentre, in campo giurisdizionale, pur reputando "inevitabile e cristiana" l'abolizione del tribunale misto, di cui singolarmente De Thomasis non parla, Tommaseo presta probabilmente a lui i suoi propri sentimenti allorché ritiene che egli
sentiva che fino a tanto che non sia popolare la conoscenza delle istituzioni le quali governano le sorti nostre, il popolo sarà sempre bestia tosata e macellata a piacere di pochi.
Un protagonista tutto moderno e romantico, insomma, fa la sua irruzione impetuosa tra lo Stato e la Chiesa di giurisdizionale memoria, ed appunto per questo Tommaseo non può consentire a De Thomasis una rivendicazione così schiettamente individualistica come quella della proprietà in quanto diritto naturale, tutt'al più acconsentendo a prenderlo per "transitorio", mezzo e non fine, con sullo sfondo insomma una persona umana, e più o meno cristiana, che ha ben poco da spartire col suddito, ma anche col cittadino e col borghese oltre i quali De Thomasis non aveva certo inteso procedere.
E non lo intende Pasquale Liberatore in quella che sarebbe stata l'ultima fatica della sua laboriosissima vita ottuagenaria, il trattato Della pubblica educazione che viene fuori dai torchi napoletani di Palma nel 1840, l'anno dopo della recensione di Tommaseo sulla rivista di De Virgiliis, che continuerà ad ospitare un paio di scritti sparsi di Liberatore, divenuto, si direbbe, "contento e pio" come il figlio Raffaele nella feroce satira leopardiana dei Nuovi credenti, qui L'alfabeto reso grazie alla stampa "il più grande strumento della civilizzazione madre di tutte le utili riforme" grazie a cui l'uomo eseguirà ciò che Cristo ha decretato "il regno cioè della pace, è la pratica della carità e di tutte le virtù sociali", lì, postumo, Dell'alto incivilimento, sue pretenzioni e suoi prodotti, echeggiante un simile e non meno graffiante Leopardi, quello della Palinodia e della "comun felicitade", nel deplorare stavolta il danno della stampa, che ha provocato l'insubordinazione dei domestici, la fine della vita patriarcale, l'indifferenza esteriore nel vestire e nel comportamento, l'autodistruzione dell'aristocrazia dinanzi agli speculatori ed ai giocatori di borsa, ed altre siffatte calamità infinite, dimentichi come sono i moderni, ammonisce Liberatore, che "più si migliora la condizione fisica dell'uomo più diventerà necessario aumentare la sua moralità"89.
Della pubblica educazione è dunque, dal punto di vista del costume e della mentalità collettiva, quella che i giovani chietini raccolti intorno ad Antonio Nolli a ricevere ed ascoltare Delfico90 avrebbero chiamato filosofia morale, un punto d'arrivo pressoché definitivo, analogo a quello che, nella filosofia civile, la lunghissima vita avrebbe consentito a Nicola Nicolini di continuare più o meno pateticamente a testimoniare fin nel pieno di quegli anni cinquanta che avrebbero assistito al definitivo esaurirsi politico della parabola murattiana.
Al centro dell'una come dell'altra filosofia è, modernamente ed irrevocabilmente, anche quando l'istruzione e l'educazione debbano di necessità affidarsi agli ecclesiastici, lo Stato:
Tutti i cittadini di uno Stato debbono avere costumi e cognizioni relativi ai bisogni e al bene di quello Stato medesimo, e perciò l'educazione anche privata dev'essere analoga ai bisogni ed alla costituzione di quella società.
Pilastro di quest'ultima è la proprietà, ed è significativo che Liberatore riprenda alla lettera nel 1840 la sua definizione di dieci anni prima di "dogma politico" per la proprietà
antica quanto l'uomo, non risultamento di convenzione umana o di legge positiva, nella stessa costituzione del nostro essere e nelle diverse nostre relazioni cogli oggetti che ci circondano.
Sia lo Stato che la proprietà, peraltro, hanno a proprio elemento mediatore quella società a cui Tommaseo aveva rivolto modernamente lo sguardo, e che Liberatore è pronto a recepire sul piano del costume, anche se non altrettanto su quello del diritto, dove la sua adesione a De Thomasis permane ostentata e fermissima.
Al centro di questa società è la donna in quanto moglie e madre, a cui il Nostro attribuisce compiti e funzioni del tutto particolari, col latino che non esclude il ballo nella formazione della personalità, e perciò, si potrebbe dire, la dama ottocentesca, a governare il salotto non meno che il focolare:
Ciò che per l'avvenire bisogna soprattutto tentar per le ragazze è di dar loro una istruzione necessaria per intervenire utilmente in ciò che tocca gl'interessi de' lor mariti, per preparare con intelligenza i loro figli ai gravi studi di collegio, e per seguir senza noja que' serii trattenimenti che ne' nostri circoli son succeduti al vagare de' farfallini.
Ma la donna e la famiglia non esauriscono atomisticamente la società, il cui protagonista genuino, e collettivo, è lo spirito pubblico, per seguire ed analizzare il quale è indispensabile anzitutto, classicamente, tener presente il condizionamento climatico, poi quello religioso, nelle sue manifestazioni superstiziose e meramente devozionali ma anche negli esercizi di pietà, a cominciare dall'accompagno dei morti in quanto primario servizio sociale, e poi ancora gli spettacoli, l'alimentazione, i pregiudizii e le "false idee", che sono da combattere con un rigorismo alla Nicolini, e così via, fino agli asili infantili della più recente tematica assistenziale.
Al vertice dell'educazione sociale sono peraltro l'informazione e la lettura, e qui sembra davvero di scorgere in controluce, nelle pagine del vecchio Liberatore, ciò che di sé stesso, e della sua giovane generazione, in quegli anni medesimi, a Napoli, avrebbe scritto Francesco de Sanctis:
I gabinetti di lettura sono, o almeno dovrebbero essere, l'emporio del sapere e della dottrina, il convegno dei dotti e degli studiosi Noi crediamo al piacere che ispirano i buoni romanzi, perché presentano un'immagine abbellita dell'esistenza, trasportandoci in un mondo in cui le facoltà dell'uomo agiscono con più libertà, in cui gli esseri spiegano maggior forza pel bene come pel male, ed in cui le avventure, uscendo dalla ristretta sfera delle nostre abitudini, aprono più vasto campo all'umana attività91.
È difficile sintetizzare meglio, con maggiore efficacia, la temperie romantica, con sullo sfondo il Quarantotto: averla saputa cogliere ed intendere senza farsene travolgere, ma anche senza rifiutarla per partito preso, costituisce la migliore testimonianza di freschezza mentale, di agilità metodologica, per il gruppo chietino che mezzo secolo prima aveva lasciato le colline adriatiche e la montagna appenninica per la Napoli del riformismo, della rivoluzione e della monarchia amministrativa.