Pasquale Corsi

Federico II e la Capitanata

    Nel corso di questi ultimi decenni gli studi su Federico II di Svevia hanno conosciuto un nuovo sviluppo1, in virtù di un complessivo riesame della sua personalità e dell'impatto della sua azione (politica, militare, economica ecc.) nel mondo che gli fu contemporaneo; altrettanta attenzione è stata riservata all'eredità da lui lasciata o a lui generalmente fatta risalire. Una ulteriore spinta in questa direzione è stata certamente data dalle celebrazioni connesse con la ricorrenza dell'ottavo centenario della sua nascita a Jesi, a partire dal 1994 e proseguita per tutto il corso dell'anno seguente. Pur essendo ancora troppo presto per una valutazione globale dei risultati conseguiti sul piano dell'analisi storiografica, mi sembra però già possibile affermare che l'occasione è servita ad un serio approfondimento delle tematiche emerse dalle più recenti analisi critiche, in modo da lasciare poco spazio alle parate di maniera. È evidente, di conseguenza, che sono venute alla luce interpretazioni di tipo molto diverso tra loro e spesso discordanti dai canoni tradizionali. Quel che è certo, a mio parere, è che neppure le revisioni più radicali2 sono state ispirate da intenti meramente iconoclastici. Piuttosto si è cercato, da un lato, di migliorare il livello di comprensione del personaggio e del suo ruolo, liberandolo (mercé l'affinamento dei metodi e l'ampliamento delle ricerche) da errori di fatto o da angustie di inquadramenti storici ormai datati; dall'altro, di enucleare le testimonianze fededegne, mediante ogni opportuna distinzione dalle parallele elaborazioni del mito, condizionate e finalizzate secondo parametri di varia o addirittura contrapposta faziosità3. Nel caso concreto, si può ipotizzare che l'immagine di Federico II perderà forse qualche orpello di troppo, attribuitogli nel corso dei secoli passati per i motivi più diversi, ma finirà con il presentarsi in una luce più veritiera ed equilibrata.

    Ciò premesso, occorre dire che non è mia intenzione proporre un bilancio delle attuali tendenze storiografiche riguardanti Federico II e la sua epoca; ne ho fatto cenno, soprattutto perché non possono non avere dei riflessi anche rispetto ad un tema apparentemente ormai definito nei suoi più minuti dettagli. Mi riferisco al rapporto che l'imperatore svevo ebbe con quella parte della Puglia che (a partire dall'età normanna) venne chiamata Capitanata, per effetto dell'impronta che vi aveva lasciato il catepano bizantino Basilio Boioannes4.

    È opportuno prendere le mosse da questo illustre personaggio, noto anche per le sue vittoriose imprese contro i ribelli di Melo da Bari, perché egli fu il promotore di una profonda trasformazione e colonizzazione dell'antica Daunia, in buona parte spopolata e pericolosamente esposta alle invasioni nemiche, cioè dei circostanti Longobardi del Molise e del Sannio, per non parlare delle ricorrenti "discese" degli imperatori di Germania. Il Boioannes, dopo aver sconfitto le truppe di Melo, volle infatti promuovere la costruzione (o ricostruzione) di una serie di città, che venivano inoltre elevate al rango di sedi episcopali; alcune di queste scomparvero nei secoli successivi, altre invece sono tuttora esistenti. Le fonti5 ci hanno tramandato i nomi di Dragonara, Civitate e Fiorentino, lungo la linea pressappoco del fiume Fortore, che si aggiungevano all'insediamento di Ripalta; in corrispondenza dei contrafforti del Subappennino dauno vennero invece dislocate le città di Montecorvino, Tertiveri, Biccari e Troia, cui le preesistenti Bovino ed Ascoli (tante volte menzionate con Lucera per la loro posizione strategica) fungevano da raccordo con Melfi e Rapolla, a ridosso del massiccio del Vulture. Furono quindi le autorità governative bizantine a promuovere, come del resto era accaduto in precedenza in altre zone della Puglia e delle regioni limitrofe, la fondazione di città fortificate, i cosiddetti kastra6. In questa articolata linea difensiva spiccava per importanza il ruolo di Troia, entro la cui circoscrizione diocesana si andò sviluppando (nella seconda metà del secolo XI) la città di Foggia.

    I nuovi assetti politici determinati dalla conquista normanna non furono di ostacolo alla prosecuzione dello sviluppo economico e demografico della Capitanata, i cui segni (al di là delle motivazioni strettamente militari) si individuano in diversi settori dell'ampio territorio, prima ancora dell'arrivo dei nuovi signori. Anche nella vasta distesa pienaggiante del Tavoliere erano andati sorgendo numerosi insediamenti rurali, una parte dei quali promossi e sostenuti dai monasteri benedettini locali7. Del tutto trascurabile invece mi è sembrata l'incidenza dei grandi monasteri campani e molisani, pur attivi con numerose dipendenze sul territorio8, nella progressiva trasformazione dell'habitat altomedievale della Capitanata. Da questo punto di vista, credo che il rilevamento sistematico dei dati offerti dalle fonti possa fornire un utile contributo alla migliore definizione del problema dell'incastellamento del Mezzogiorno9. Circa l'effettiva partecipazione dei monasteri benedettini locali (come San Pietro di Terramaggiore, San Giovanni in Lamis, Santa Maria di Tremiti ecc.) all'opera di colonizzazione delle aree circostanti ho già trattato più volte in altre sedi; pertanto mi esimo dal richiamarne analiticamente le caratteristiche e gli sviluppi, molti dei quali di lunga durata. Fasce sempre più consistenti di terreni seminativi e, ben presto, anche di vigneti ed oliveti, concentrate intorno ai nuovi borghi e via via diffuse soprattutto lungo le direttrici viarie, andavano man mano a sostituire l'incolto, le boscaglie e gli acquitrini, cui si aggiungevano vaste lagune periferiche a ridosso delle coste. La fase di sviluppo, che interessò anche il Gargano10, continuò durante il secolo XII (di sicuro sino all'età ruggeriana), tanto da influire notevolmente nella trasformazione dell'habitat, ma non sino al punto da cambiare radicalmente l'ecosistema, quale si era venuto a formare durante l'alto medioevo.

    L'equilibrio di questo contesto non era stato turbato da qualche fenomeno di segno negativo, forse inevitabile in una situazione tutt'altro che statica. A parte infatti un paio di villaggi scomparsi ai confini del Molise e dell'Irpinia, nei primi decenni dell'epoca sveva risulta in stato di abbandono solo il casale di San Trifone11 presso Apricena, dipendenza del monastero di San Giovanni in Piano. Eventuali abbandoni provvisori (a causa, in genere, di eventi bellici) non sono invece significativi dal nostro punto di vista. Permanevano, ad ogni modo, ampi spazi incolti ed un equilibrio demografico assai debole, sul quale anche interventi di portata modesta potevano incidere profondamente.

    Proprio queste caratteristiche di fondo permisero, probabilmente, a Federico II di lasciare una vasta traccia del suo operato nel contesto territoriale in questione. È noto del resto quanto lo Svevo amasse il soggiorno in queste zone, di sicuro per la loro precipua amoenitas12, che gli permetteva tra l'altro di trovare quegli spazi e quelle particolari condizioni ambientali, che meglio si adattavano ai suoi diletti venatorî. In particolare gli acquitrini e le paludi, esistenti all'epoca non solo nelle fasce costiere, ma anche nelle aree più interne della pianura e addirittura sugli altipiani garganici (come il pantano di S. Egidio, presso San Giovanni Rotondo), garantivano in maniera ottimale l'esercizio della caccia con il falcone alla fauna avicola, una passione che in Federico raggiunse la perfezione dell'arte e della scienza13. Non meno favorevoli si presentavano d'altro canto le condizioni per la pratica di altri tipi di caccia. A tal proposito, appare molto interessante la testimonianza del cronista Matteo Spinelli da Giovinazzo, riguardante (per il mese di gennaio del 1256) una straordinaria battuta di caccia di re Manfredi nel bosco dell'Incoronata presso Foggia, lungo le sponde del Cervaro: erano con lui ben mille e quattrocento persone, ciascuna delle quali mise in carniere una quantità eccezionale di selvaggina14. La nostra fonte non manca di aggiungere che tale abbondanza si spiegava col fatto che da sette anni (cioè pressappoco dall'anno precedente la morte di Federico) nessuno vi aveva più cacciato, sicché la fauna disponibile si era ovviamente moltiplicata senza alcuna perdita. La presenza di foreste regie in Capitanata sotto Federico II è tra l'altro attestata da numerosi accenni, sparsi qua e là nelle fonti, al variegato mondo della burocrazia venatoria fridericiana, come i forestarii, i falconerii, i venatores, i custodi, i valletti e così via; delle domus solatiorum e di altre residenze imperiali farò cenno tra poco.

    È comunque abbastanza ovvio riconoscere che, nella scelta dei propri luoghi di soggiorno, l'imperatore si attenesse ad una molteplicità di motivazioni, non escluse quelle di ordine meramente pratico. Se è vero che lo studio degli itinerari regi in riferimento ai sovrani medievali può rivelare importanti aspetti del disegno politico da loro concepito ed attuato, anche gli spostamenti della corte itinerante di Federico II evidenziano una serie di scelte ben precise15. Premesso che, nel periodo compreso tra il 1220 e il 1250, Federico II si trattenne per la maggior parte del tempo nelle regioni continentali del Regno di Sicilia, i soggiorni in Puglia (e soprattutto in Capitanata) risultano abbastanza elevati in percentuale; non mi sembra però che siano stati molto prolungati, a causa dei frequenti cambiamenti di sede dell'imperatore. Tra l'altro, si osserva che le caratteristiche del clima hanno probabilmente consigliato delle permanenze in pianura tra l'autunno e la primavera, mentre nel colmo dell'estate era certamente preferibile trasferirsi sui monti della vicina Basilicata: " el verno stava a Foggia a uccellare, la state alla montagna a cacciare a suo diletto"16.

    Sembra che Federico II sia venuto per la prima volta in Capitanata nel febbraio del 1221, quando appunto si registra la sua presenza a Foggia. Sulla base di uno spoglio sommario delle fonti, che non ha quindi alcuna pretesa di esaustività, nel corso dei trent'anni considerati risulterebbe un massimo di 35 soggiorni a Foggia, di varia durata; a notevole distanza si collocano altre località (tra quelle sicuramente identificate) della medesima area, come Civitate, Apricena, Troia, San Chirico, Tressanti, San Lorenzo in Carmignano, Lucera, Ordona, Corneto e Salpi.

    Sia all'interno di questi semplici dati sia in relazione agli eventi che vi ebbero luogo, spicca senza dubbio la crescente importanza di Foggia, che viene ad assumere quasi il ruolo di capitale del Regno: non è certo un caso che Federico II vi soggiorni nella ricorrenza di grandi festività religiose (come del resto si riscontra anche per Apricena) o di solenni manifestazioni della sua augusta sovranità. L'8 aprile 1240, ad esempio, festa della domenica delle Palme, venne convocata a Foggia una solenne assemblea (un "parlamento generale"), allo scopo di promulgarvi nuove costituzioni per il Regno17. Tra le città di Capitanata invitate a mandare al "parlamento" ciascuna due rappresentanti, sono menzionate nelle elencazioni ufficiali solo Montesantangelo, Siponto, Civitate e Troia. A Foggia, nel dicembre 1241, morì l'imperatrice Isabella, sorella di Enrico III d'Inghilterra18.

        Se è vero che a Foggia, giustamente celebrata come "sede regale ed imperiale"19, Federico fece costruire il suo palazzo e che negli immediati dintorni (come al Pantano, presso San Lorenzo in Carmignano) volle che gli fossero edificate delle residenze per i suoi svaghi (le cosiddette domus solatiorum), occorre puntualizzare il significato politico della sua scelta. Più che alla città in se stessa, sembra meglio estendere all'intera Capitanata quel ruolo di "territorio regio centrale", che dalle ricerche del Brühl in poi si vanno evidenziando20, sulle orme di una rivalutazione (soprattutto per motivi politici) dei territori "continentali del Regno, già osservabile all'epoca di Enrico VI. È sembrato anzi operante una sorta di "modello bipolare"21 nelle strutture amministrative del Regno sin dalla metà del secolo XII, in corrispondenza delle diverse tradizioni ed influenze culturali riscontrabili, da un lato, in Sicilia e in parte della Calabria e, dall'altro, nelle regioni poste più a nord del fiume Sinni. Nel primo caso, i Normanni avrebbero riscontrato una prevalenza culturale arabo-bizantina; nel secondo, un'altra di stampo longobardo-romano. Questo modello bipolare sarebbe stato recepito, se non addirittura perfezionato, da Federico II, mediante una ulteriore suddivisione delle "capitanerie"; quella a nord di Roseto Capo Spulico e che raggiungeva verso nord il fiume Tronto fu ulteriormente strutturata su due poli, l'uno incentrato su Napoli e l'altro sulla Capitanata.

    Lasciando da parte le questioni concernenti la città di Napoli22, che hanno almeno in parte una loro specifica caratterizzazione, il suddetto bipolarismo "continentale" ha indotto la maggior parte dei ricercatori a spiegarlo come un effetto di una diversa visione politica rispetto all'età normanna: Federico II avrebbe infatti ritenuto opportuno spostare il centro direzionale dello Stato in zone strategicamente meglio collocate, donde i confini dei territori pontifici e le città della pianura padana potevano essere raggiunti più facilmente che dalla lontana Sicilia. Quale che sia stato il peso di queste valutazioni, tali da non poter essere ragionevolmente escluse dai calcoli politico-militari dello Svevo, è sembrato ad alcuni studiosi23 che esse abbiano tutt'al più permesso una felice concordanza di esigenze proprie di quella fase storica con elementi strutturali di antica origine.

    Pur essendo molto apprezzabile questo impegno esegetico, resta incontrovertibile (secondo un'opinione quasi unanime) la predilezione di Federico II per la Puglia e per la Capitanata in particolare. Ciò viene generalmente collegato a quel celebre appellativo (che è rimasto, più di altri, in auge nella tradizione storiografica e nel linguaggio comune) di puer Apuliae; egli stesso amava definirsi, più semplicemente, unus ex Apulia. Tra le fonti in proposito, ci limitiamo a menzionare quelle provenienti da ambienti di ispirazione profetica e gioachimita. A Michele Scoto, il celebre astrologo di corte, è d'altro canto attribuita la descrizione di Federico II come giustiziere e martello del mondo (malleus orbis), destinato a regnare nella pace su tutta la terra: infatti, egli concludeva profeticamente, "Et puer Apuliae terras in pace tenebit"24.

    È appena il caso di ricordare che il significato di questo appellativo è stato esaminato da parecchi studiosi nelle sue varie potenzialità ed estensioni; non si è mancato anzi di cogliere, nell'epistolario fridericiano, qualche espressione volta a celebrare le radici germaniche della sua stirpe. Mi sembra però, a questo proposito, che la prova di una eventuale contraddizione risulterebbe assai debole, oltre che spiegabile (allo stato attuale delle conoscenze) con la tipologia stessa delle fonti utilizzate. Per tornare all'appellativo di puer Apuliae, si è osservato (ad esempio) che il primo termine richiama evidentemente il concetto della giovinezza dell'imperatore, quale apparve ai suoi sudditi tedeschi nel corso dell'avventurosa impresa contro Ottone IV. Vi era insita però anche l'idea di una "giovinezza" fuori del tempo, espressione e simbolo di precocità di intelligenza, di inesausta curiosità intellettuale e di instancabilità nell'azione; a queste doti si aggiungeva una quasi innata maturità di giudizio, acquisita nei duri e desolati anni della sua infanzia palermitana. Il secondo termine rievoca sì l'Apulia, ma sostanzialmente in riferimento all'intero Regno, col quale veniva comunemente a identificarsi l'ambito geografico definito dall'appellativo.

    Sta di fatto comunque, al di là della sua indiscutibile valenza storico-lessicale, che l'appellativo di puer Apuliae nel suo significato più circoscritto (limitato cioè solo alla parte settentrionale della Puglia) ben si addice a Federico II, che amò soggiornare in quella "magna Capitana", cui faceva cenno re Enzio nel suo nostalgico canto ("e vanne in Puglia piana, la magna Capitana"). Ancor più chiaramente, l'imperatore stesso rievoca i soggiorni suoi e della sua corte in Capitanata, con espressioni di grande effetto per queste terre di Puglia: "Cum solatiis nostris Capitinate provinciam frequentius visitemus et magis quam in aliis provinciis regni nostri moram sepius trahimus ibidem"25. Nel suo palazzo di Foggia, nei numerosi castelli e loca solatiorum disseminati in ogni angolo del territorio, tra i suoi fedeli saraceni di Lucera, Federico trascorse probabilmente la parte migliore della sua vita e lasciò indelebile ricordo della sua presenza imperiale.

    A questo punto è opportuno esaminare un po' più da vicino gli effetti provocati sul territorio e sulle popolazioni della Capitanata dalle scelte di Federico II. Di recente è stata avanzata una proposta interpretativa molto interessante e che ha una sua indubbia suggestione, anche se manca la prova della reale programmazione di un piano consapevolmente elaborato in tutti i suoi aspetti. In Capitanata dunque Federico avrebbe progettato di ricostruire il paesaggio e le strutture che aveva conosciuto in Sicilia, a Palermo e nei suoi dintorni26. Il territorio circostante Foggia doveva essere perciò piegato alle esigenze proprie del soggiorno di un grande sovrano, con le sue riserve di caccia, i palazzi e le residenze di campagna; tutto il resto inoltre doveva servire di supporto e per le esigenze logistiche, sotto il controllo e la diretta amministrazione dei funzionari imperiali. Il modello era evidentemente quello normanno, con il Palazzo regio di Palermo ed una corona di residenze suburbane, come quelle celebri della Favara, della Cuba e della Zisa, adorne di mosaici e giochi d'acqua27.

    Per quanto riguarda la Capitanata, le testimonianze circa il tipo di interventi effettuati da Federico II sono proporzionalmente abbastanza esigue, ma soprattutto quasi sempre ambigue o reticenti rispetto alle loro finalità. Di sicuro a partire dagli anni Venti, dopo il suo ritorno dalla Germania, ma ancor più sistematicamente dagli anni Trenta del secolo XIII, si procede alla formazione ed al rafforzamento di nuovi assetti territoriali. Un impegno notevole è innanzitutto riscontrabile, analogamente del resto a quanto si osserva per le altre regioni del Regno, nella creazione o nel restauro di una cospicua rete castellare, che cingeva dal Gargano all'Appennino la pianura del Tavoliere e che si integrava, in linea con il concetto strategico di difesa "passiva"28 elaborato da Federico, con le cinte murarie delle città. Nella serie dei castelli esistenti in età fridericiana si possono annoverare, in pianura, quelli di Tressanti e Versentino; a nord, verso il Molise, quelli di Termoli, di Serracapriola e di San Marco La Catola; raggiunti con quest'ultimo i contrafforti del Subappennino dauno, la linea di castelli continuava ad ovest con Lucera, Biccari, Troia, Castelluccio Valmaggiore, Bovino, Deliceto, Sant'Agata di Puglia (con la menzione anche di una Rocca Sant'Agata) ed infine Monteverde, verso Melfi; in area garganica abbiamo i castelli di Lesina, Devia, San Nicandro, Vico, Peschici, Vieste, Monte Sant'Angelo e Castelpagano, cui sono da aggiungere le fortificazioni esistenti nell'isola di San Nicola delle Tremiti; alla difesa del fianco meridionale provvedevano ovviamente i castelli della fascia settentrionale della Terra di Bari. A parte quelli ricordati nello Statutum de reparatione castrorum, dovremmo tener conto anche delle altre fortificazioni di cui ci è nota l'esistenza, ma che non sono menzionate nel suddetto documento perché di pertinenza feudale; abbiamo inoltre delle torri (come quella di Torre Mileto, che subì varie vicissitudini) e dei monasteri fortificati (come Sant'Angelo di Orsara), che sono quindi da aggiungere ai castelli di Civitate, Dragonara, Pietra Montecorvino, Montecorvino, Tertiveri, Ascoli Satriano e, probabilmente, Panni. In alcuni casi sussistono forti dubbi circa la loro datazione, se non addirittura circa la loro effettiva individuazione, come ad esempio in riferimento a San Severo29.

    All'imponenza di questo sistema castellare, che inevitabilmente venne a pesare sulla popolazione non solo per costituirlo, ma ancor più per mantenerlo costantemente in perfetta efficienza, corrispondeva la complessità della rete delle domus solatiorum, in Capitanata molto più numerose che nelle altre province del Regno: ne sono state contate infatti ben ventotto, ventidue delle quali nel Tavoliere e le restanti nella fascia pedegarganica30. Non mette conto, a mio parere, riportare ancora una volta l'elenco di queste domus, di solito contigue ad insediamenti rurali (come i casali) o ad agglomerati urbani di maggiore importanza; talvolta erano invece completamente isolate o vicine a qualche chiesa. Se infatti le loro caratteristiche generali sono da tempo note, mancano in molti casi delle indagini particolareggiate, che potrebbero di sicuro fornire ulteriori elementi per una esatta valutazione del fenomeno.

    La questione è tanto più rilevante quanto maggiore è attualmente l'interesse per riconoscere l'impatto sul territorio delle scelte di Federico II, con i relativi contraccolpi nell'habitat preesistente. Da questo punto di vista andrebbero esaminati anche i criteri riguardanti l'installazione e la regolamentazione delle masserie regie31, volti a garantire loro non solo la stabilità economica ed un autonomo sviluppo, ma soprattutto il loro inserimento in un contesto territoriale organicamente coerente. In relazione alle nuove esigenze dell'imperatore potrebbero porsi, ad esempio, la scomparsa o almeno le alterne vicissitudini di alcuni casali preesistenti. Abbiamo notizia, a tal proposito, della scomparsa del casale di Fabrica32, appartenente al monastero della SS. Trinità di Cava e sito tra Ordona e San Lorenzo in Carmignano, a sud di Foggia. È anche vero però che il casale venne ripopolato qualche tempo dopo con una colonia di Armeni, in base ad accordi stipulati nel maggio 1272. Abbastanza eloquenti, ma oscuri circa le cause e le circostanze connesse, sono alcune notizie riguardanti gli abitanti di San Lorenzo in Carmignano33. In alcuni atti, risalenti al 1237, si fa cenno infatti ad una trasmigrazione degli abitanti di San Lorenzo in altri casali di proprietà dell'imperatore ("tempore transmigrationis Laurentinorum per nova imperialia casalia"); da queste stesse dichiarazioni si ricava però anche che il casale di origine rimase abitato e centro di trasformazione dei prodotti agricoli. Vi è citato infatti un trapetum (cioè un frantoio) di proprietà della curia episcopale di Troia, per la macinazione delle olive, delle quali era evidentemente abbondante la produzione nei dintorni; si fa inoltre esplicito riferimento agli abitanti attuali del casale e, soprattutto, ad un pubblico notaio del luogo (un "Iacobus castri Sancti Laurentii publicus notarius"), che provvide a rogare tutti e tre gli atti in questione.

    A parte ogni altra possibile interpretazione, queste testimonianze ci permettono di osservare (come si può costatare anche in altri casi affini), che la vicinanza di un insediamento imperiale consigliava, quando era già disponibile, di non lasciar disperdere una popolazione in grado di fornire eventualmente la manodopera necessaria per i servizi della domus. Quella detta "del Pantano"34, nei pressi appunti di San Lorenzo in Carmignano, era dotata di un vivarium, cioè di uno specchio d'acqua all'interno di un parco, in modo da offrire un habitat ottimale soprattutto per gli uccelli acquatici: Federico II, ci riferisce Giovanni Villani, "fece il parco dell'uccellagione al Pantano di Foggia in Puglia"35. I trasferimenti cui si è fatto cenno possono probabilmente essere annoverati tra i modi di redistribuzione di una popolazione localmente esuberante, a vantaggio di altri nuclei carenti di braccia. Nulla esclude, a tal proposito, che l'imperatore abbia applicato il metodo, divenuto consueto dagli inizi degli anni Trenta, delle revocationes36: si trattava cioè di recuperare al demanio quanto (in beni e in uomini) era stato usurpato dai signori feudali o da chiunque altro, approfittando del prolungato e tormentato periodo di crisi attraversato dalla Corona, a partire dalla morte di Enrico VI.

    Un po' più difficile risulta individuare quali siano stati gli altri casalia imperialia beneficiari dei suddetti trasferimenti. Uno potrebbe essere stato Ordona37, di cui risultano abitanti i personaggi che, nella documentazione in precedenza menzionata, rivendicano le loro proprietà nel territorio di San Lorenzo. Federico II non solo avrebbe ripopolato Ordona, ma vi avrebbe fatto costruire una delle sue domus, collegata ad un preesistente castellum e contigua appunto al casale. Ordona, tra l'altro, è menzionata con la sola Lucera tra le località fondate da Federico II in Puglia, in un elenco largamente incompleto ed impreciso riportato dallo pseudo-Iamsilla38. Di altri casali eventualmente fondati da Federico II in Capitanata non si hanno notizie certe; si può solo ritenere, in genere, che tra di loro vada annoverato qualcuno di quelli (e sono abbastanza numerosi) che appaiono documentati per la prima volta in età sveva; L'incertezza in proposito non permette però di utilizzarli per il nostro argomento.

    Abbastanza numerose in Capitanata, più che in qualsiasi altra parte del Regno, erano anche le masserie regie (come quelle di San Chirico, Versentino, Castelluccio, Visciglito, Tressanti, Celano, Foggia ed Apricena), per le quali mancano però notizie adeguate riferibili all'epoca sveva39. Di sicuro sappiamo che Federico II, con un mandato dell'8 aprile 1240 da Foggia ed un altro, del 2 maggio successivo da Orta (per la cui masseria regia ci è rimasto un importante inventario del 1279), vi custodiva gli armenti e le greggi che faceva venire dalla Calabria e dalla Sicilia40. Nel primo caso, si trattava di cinquemila castrati (o, in alternativa, altrettanti arieti ben nutriti, pingues) e di mille vacche ("che siano buone da mangiare", anzi "que sint habiles ad edendum"), oltre a seimila pezze di formaggio. Nel secondo caso, si trattava invece di seimila pecore con i loro arieti (dieci ogni cento) e cinquecento vacche con i relativi tori; queste mandrie dovevano servire, scriveva l'imperatore, "ad usum familiae nostrae". Di solito le masserie regie erano utilizzate per l'allevamento del bestiame, ma non mancavano i seminativi. In qualche caso, come a Corleto (non lungi da Ascoli Satriano), ci troviamo di fronte ad una marescalla, cioè ad una fattoria per la riproduzione degli equini41.

    Alla Capitanata, e mi sembra che questo fugace cenno sia davvero minimo rispetto all'importanza dell'insediamento, si collega il trasferimento dei superstiti saraceni dalla Sicilia a Lucera42, a cominciare dal 1224-25; nel giro di poco più di un decennio, la città assunse un'impronta nettamente musulmana. L'impatto sul territorio circostante di questa popolazione, trapiantata dalla Sicilia, fu notevole, sia per effetto della sua vivacità ed intraprendenza, sia in conseguenza (diretta o indiretta) del suo isolamento di origine religiosa rispetto al contesto circostante. Dal punto di vista dell'imperatore, non vi fu scelta politica più felice, dato che egli potè sempre contare sul valore e la fedeltà delle sue truppe saracene (particolarmente rinomate nel tiro con l'arco), prive com'erano di altri legami o di altri punti di riferimento. I musulmani di Lucera si segnalarono ben presto anche per l'operosità e la bravura delle loro maestranze in vari campi della coeva produzione artigianale, nello sviluppo dell'agricoltura (per la cui promozione Federico II fornì mille buoi degli armenti imperiali)43 e nella cura del serraglio, ove erano costoditi ed ammaestrati animali esotici di vario genere (come leopardi, cammelli ecc.), dei quali l'imperatore amava circondarsi. A Lucera, probabilmente per adornare la sua residenza, Federico fece trasportare nel 1240 da Napoli alcune statue; anzi, per timore di eventuali incidenti di percorso, ordinò che l'operazione avvenisse esclusivamente mediante l'impiego di uomini a tal fine incaricati, che dovevano trasportarle sulle proprie spalle44.

    La presenza dei Saraceni, i "figli di Belial" (in contrapposizione ai "figli della luce", cioè dei cristiani)45 fu ovviamente mal sopportata dalle autorità religiose e costituì sempre uno dei ricorrenti capi di accusa nella libellistica antimperiale. A rinfocolare l'ostilità delle popolazioni cristiane circostanti concorrevano ovviamente gli occasionali contrasti d'interesse e la stessa prosperità della colonia saracena, che cercava inevitabilmente di consolidare e di ampliare i propri spazi vitali. Del resto, la densità demografica del nuovo insediamento, cui forse si aggiunse precariamente qualche altro nucleo (come quello di Stornara) non poteva che sconvolgere gli assetti già consolidati delle popolazioni confinanti e provocare scontri e tensioni. Tra i primi casali ad essere coinvolti e a subire con l'abbandono o la distruzione le estreme conseguenze, si possono annoverare i casali di San Pietro in Bagno e di San Salvatore "dell'abate Aldo" (Abbatis Aldi), per citare solo gli inizi di una conflittualità prolungatasi sino all'alba del Trecento46. È noto infatti che i Saraceni non esitavano ad occupare i terreni delle universitates vicine ed anche quelli demaniali; il risvolto positivo di questa pericolosa intraprendenza si riscontra nella crescita della produzione cerealicola, che non compensa tuttavia lo sconvolgimento sociale ed economico provocato dalla loro venuta in Capitanata.

    Dal punto di vista degli assetti territoriali, grande importanza ebbe (com'è ovvio) la normativa imperiale circa le revocationes di terre e di uomini e le modifiche delle strutture amministrative. La politica di Federico II, a partire già dal 1220 (ma, ancor più decisamente, dal 1230) fu intesa ad incorporare nel demanio il maggior numero possibile di terre feudali. In Puglia, molte contee, ancora esistenti nei primi decenni del secolo XIII, finirono per essere incorporate nel regio demanio. Ne fu esclusa solo l'area (corrispondente all'incirca al promontorio garganico ed a qualche zona circostante) compresa nel cosiddetto Honor Montis Sancti Angeli47, tradizionalmente destinato alla funzione di dotario delle consorti del sovrano, come fu appunto per Costanza d'Aragona e le altre che seguirono, di fatto perciò anche l'Honor era amministrato dai giustizieri del governo centrale. Con le sue disposizioni testamentarie Federico lo lasciò in eredità a Manfredi, insieme al principato di Taranto48.

I    n pochi casi ci sono sufficientemente noti i risultati di alcune specifiche vicende, concluse a vantaggio del fisco imperiale; molto spesso però ci sfugge la validità giuridica delle ragioni accampate e le vere motivazioni dei fatti. Riccardo da San Germano49 fa risalire al 1234, senza però fornire adeguate spiegazioni, l'ordine dell'imperatore di distruggere alcuni casali della Puglia e di confiscare quello di Castiglione, di proprietà di Montecassino, provvedendo inoltre al suo ripopolamento; al monastero vengono tuttavia riconfermati i beni posseduti in Troia50. Subisce la confisca anche il castrum di Apricena, ove venne costruita una domus verso il 1225, a danno del monastero di San Giovanni in Piano. Come si specifica in un privilegio all'abate Roberto dell'aprile del 1221, la "villa nostra Precine" non era da ritenersi compresa nell'originaria donazione che il conte Petrone di Lesina aveva compiuto in favore del monastero51. Venne invece confermato, con tutti gli altri privilegi di cui godeva, il possesso del casale di San Trifone (di cui si è fatto cenno in precedenza) e della chiesa di San Nazario di Caldule, con la vicina sorgente e il fiume che ne scaturiva, anch'essi beni donati dal conte Petrone.

    Da confische più o meno pesanti vennero colpiti due altri importanti monasteri della Capitanata. A quello di San Giovanni in Lamis52 (oggi San Matteo) Federico tolse i casali di Fazioli e di Sala; in quest'ultimo vi avrebbe costruito "palacium unum soleratum cum camera", tre (o addirittura cinque) case ed un trappetum. Sembra inoltre che questo monastero sia stato spogliato anche del casale di San Giovanni Rotondo, una delle sue principali dipendenze. Si diceva infatti che Enrico VI, padre dell'imperatore Federico II, avesse distrutto l'antico insediamento (il Castellare) posto in cima ad un monte, per ricostruirlo alle sue pendici nell'attuale sito. Vera o falsa che fosse questa tradizione, essa servì a Federico per impadronirsi di San Giovanni Rotondo.

    Col monastero di San Pietro di Terra Maggiore53 (oggi Torremaggiore), i cui ricchi possedimenti si estendevano nella parte settentrionale del Tavoliere, i rapporti furono abbastanza tempestosi. Nel dicembre 1227, ad esempio, Federico II proibiva al monaco cassinese Gregorio de Carboncello di assumere le funzioni di abate del monastero; nessun problema invece ci fu nella conferma di una disposizione del defunto Matteo Gentile, conte di Lesina, circa la consegna della consueta quantità di anguille al monastero 54. Ben più grave fu ovviamente la confisca dei casali di Sant'Andrea de stagnis e di San Severo55, cioè delle più prospere e popolate dipendenze di Terra Maggiore. Già nel 1236, mentre si trovava all'assedio di Mantova, l'imperatore si preoccupava di rispondere in proposito alle accuse di Gregorio IX; ci ritornava su nel 1238, in maniera più dettagliata, ma le sue giustificazioni continuano ad apparire un po' confuse56. In sintesi, Federico dichiarava in primo luogo che egli aveva dato corso solo ad una permuta consensuale, indennizzando il monastero di San Pietro con il casale di Riccia, ai confini del Molise, e con 500 once d'oro; San Severo inoltre, a quel che gli risultava, non apparteneva in totum all'abbazia, che vi esercitava solo dei diritti feudali; ne conseguiva che anche un'eventuale confisca sarebbe stata comunque giustificata. Federico II non tralasciava neppure l'accusa di aver punito gli abitanti di quell'insediamento per la loro ribellione, ma di ciò si farà cenno tra poco.

    Non mancano tuttavia neppure testimonianze circa l'esistenza di rapporti meno traumatici con gli enti ecclesiastici della Capitanata. Nell'agosto del 1209, ad esempio, concedeva a Benedetto, priore del monastero di Santa Maria del Gualdo e al monastero di San Matteo di Sculcola (dipendenza del precedente, da cui prende nome l'Ordine dei Gualdensi) la sua protezione e la conferma dei possedimenti e dei consueti privilegi57. Al dicembre 1220 risale la conferma dei privilegi e dei possedimenti di Montevergine58, dal conte Matteo Gentile di Lesina: "Insuper concedimus et confirmamus ipsi monasterio habere et percipere perpetuo de lacu Alesine annuatim sexaginta sertas anguillarum de grossis et supergrossis". Di notevole importanza, per il cospicuo numero di dipendenze menzionate, è la conferma del maggio 1225 in favore del monastero di Santa Maria di Pulsano59; altrettanto significativi sono i privilegi in favore di Cava, di San Lorenzo di Aversa, dei Gerosolimitani e dei Cavalieri del S. Sepolcro. Tra il 1230 e il 1231 si datano una conferma e una donazione dell'imperatore in favore dell'Ordine dei Teutonici, nella persona del suo gran maestro Ermanno di Saltz60. La prima riguarda, tra l'altro, i possedimenti in località Belvedere, fra Apricena e San Nicandro; la seconda concerne invece delle terre seminative in territorio di Ascoli, nelle località Aqualata e Bisciglieto.

    Per quanto poi si può cogliere circa l'atteggiamento di Federico II nei confronti dell'episcopato di Capitanata, ci limitiamo a segnalare i casi delle diocesi di Ascoli e di Bovino61. Rispetto al vescovo di Ascoli, Federico II provvide (dopo apposita inchiesta) a confermarne i diritti sulla riscossione delle decime e della baiulazione nelle città di Ascoli e di Candela; analogo riconoscimento riguardò i diritti episcopali sul casale di Corneto e sui redditi "plateatici" dei chierici e degli ebrei di Ascoli e di Candela. Nel 1223 vennero confermati i privilegi della Chiesa di Bovino, nella persona del vescovo Pietro62. Al 1240 risale invece un mandato imperiale al giustiziere di Capitanata, Riccardo di Montefuscolo, di procedere contro l'arciprete di Rocca Sant'Agata che, senza chiedere l'assenso preventivo del sovrano, aveva tentato di ottenere il seggio episcopale di Bovino.

    Le scelte adottate da Federico II nella sistemazione complessiva del territorio ebbero conseguenze notevoli anche sugli equilibri urbani. Di Foggia si è già fatto cenno, mentre rinvio per una analisi dettagliata dei primi secoli della sua esistenza ad uno specifico saggio63; è sufficiente pertanto ricordare ancora una volta che le fortune di Foggia, dal punto di vista politico-istituzionale, raggiunsero il culmine proprio durante il regno di Federico II. Nonostante ciò, l'orgoglioso spirito civico della città, che a lungo aveva alimentato e continuò ad alimentare una tenace contrapposizione al predominio religioso di Troia (capoluogo della diocesi omonima, in cui era compresa anche Foggia), mal sopportava gli inevitabili pesi derivanti dalla presenza della curia imperiale. La stessa situazione di disagio, più o meno aggravata dalle particolari condizioni in cui si trovavano i principali centri demici della Capitanata, finì per sfociare o in episodi di aperta rivolta (con le conseguenti repressioni) o in una fase di decadenza, che investì alcuni di essi in maniera irreversibile.

    Per quanto riguarda il primo aspetto, non si può non menzionare la clamorosa decisione di Foggia di passare, con altre città della Capitanata (tra cui San Severo e Casalenovum), dalla parte dei ribelli filopontifici64. La vicenda è riportata dalle fonti con qualche dettaglio, che non ci fornisce però alcun indizio circa le motivazioni dei rivoltosi, troppo semplicisticamente inquadrati nella categoria dei fedigrafi. Gli eventi prendono le mosse dalla partenza, nel giugno del 1228, di Federico II per quella crociata tante volte rinviata e che gli era già costata la scomunica da parte di papa Gregorio IX. Durante l'assenza dell'imperatore, protrattasi per circa un anno, erano scoppiate nel Regno numerose rivolte, fomentate dagli emissari del papa e dalle ricorrenti voci circa la morte di Federico II. Accanto ai consueti motivi propagandistici antighibellini, è probabile che si sia fatto leva (almeno per le città più grandi del Regno) su promesse di concessioni di privilegi e di autonomie (come appunto vennero chiamati dalle loro insegne con le chiavi di san Pietro al posto della croce), al comando di Giovanni di Brienne. La resistenza delle truppe imperiali, comandate dal gran giustiziere Enrico de Morra, cominciò a indebolirsi nei mesi iniziali del 1229, sicché nella primavera di quell'anno le schiere degli invasori cominciarono a penetrare in Puglia.

    L'aggravarsi della situazione dovette indurre Federico II a tornare immediatamente in Italia, per riprendere il controllo degli eventi. Sbarcato inaspettatamente a Brindisi il 10 giugno del 1229, Federico riuscì a riportare rapidamente l'ordine in tutta la Puglia, mettendo in fuga l'esercito invasore. Abbandonate al loro destino, le città ribelli soggiacquero alla punizione loro inflitta dall'imperatore. Sembra dunque che Federico II abbia fatto colmare i fossati difensivi ed abbattere le mura di Foggia, di Casalenovum e di San Severo; non è da escludere che nella repressione siano state coinvolte anche altre città della Capitanata, come ad esempio Civitate. Ad ogni modo, il caso più eclatante fu certamente quello di Foggia, che rimase per molto tempo priva di mura.

    Naturalmente l'opera di punizione dei ribelli non si fermò alle mura cittadine, del resto un simbolo poco gradito delle autonomie locali, ma si estese con ogni probabilità a coloro che si erano maggiormente esposti nel compiere attività ostili all'imperatore ed a coloro che avevano osato capeggiare la rivolta. I colpevoli dovettero subire gravi punizioni, non escluse la condanna a morte e la confisca dei beni. Sono probabilmente una traccia di queste severe repressioni (ma, ovviamente, riferibili anche ad altri e successivi avvenimenti) i lunghi elenchi di case e terre, passate in proprietà della Curia imperiale e trascritte dettagliatamente nel celebre Quaternus de excadenciis et revocatis Capitinatae, compilato verso la fine del regno di Federico II65.

    Nonostante il trattato di pace di Ceprano del 28 agosto 1230, che garantiva tra l'altro l'impunità a coloro che erano stati partigiani della politica pontificia, è da ritenere che continuasse l'epurazione di coloro che si erano compromessi. Perciò Gregorio IX fu costretto ad intervenire in loro favore, come sappiamo da un'epistola da lui inviata all'imperatore, nella quale si raccomandava di usare clemenza nei confronti dei suoi sudditi già ribelli66.

    Questo documento, indubbiamente fondamentale per la comprensione di quanto era accaduto in una vasta zona (all'incirca, tutta la parte centrale) della Capitanata, è datato da Anagni, il 15 ottobre 1230. Nella sua lettera il papa invitava l'imperatore a non dare ascolto ai malvagi istigatori (a cui, diplomaticamente, si attribuiscono le colpe del sovrano) e quindi a non mostrarsi troppo duro, nel vendicare le offese patite, nei confronti degli abitanti di Foggia, Civitate, Casalenovum, San Severo ed altri luoghi della Puglia (" ut iniuriam propriam immisericorditer prosequens homines tuos de Fogia et alios quosdam de Capitinata minus humane pertractes"). Il pontefice insiste a lungo, con tutti i mezzi offerti dal consueto armamentario retorico, per indurre l'imperatore a preferire la misericordia alla vendetta, ad essere paziente delle offese e, in accordo con il papa (loro che erano "duo magna luminaria"), portare la pace e la gioia tra gli uomini.

    Per quanto riguarda Foggia, le cui mura erano state in precedenza riedificate o rinforzate proprio da Federico II, sappiamo che venne investita nel maggio 1230 dalle truppe imperiali67. Sarebbe stata questa l'occasione di quel componimento poetico indirizzato, secondo ben note leggende locali, dall'imperatore alla città, per rinfacciarne il tradimento68. In effetti, non pare che gli abitanti abbiano opposto resistenza all'abbattimento delle mura ed allo spianamento dei fossati; sembra anzi che la situazione perdurò in tal modo sino alla fine dell'epoca sveva. Lo comproverebbe innanzitutto un episodio riportato da Niccolò Jamsilla69, databile al 1251, che attesta per di più la partecipazione della città ai moti antisvevi, scoppiati in varie città della Puglia poco dopo la morte di Federico II. Per difendersi dal previsto attacco di Manfredi, appoggiato dai Saraceni di Lucera, i Foggiani avevano infatti cominciato a costruire delle fortificazioni intorno alla città (" iam Fogitani aggeribus circumcirca vallare se coeperant"), che furono però costretti di nuovo ad abbattere dopo la loro resa (" aggeres, quibus se circumquaque vallaverant, explanari mandavit"); furono inoltre condannati a pagare una certa somma a titolo di ammenda. Tutto ciò viene di nuovo confermato qualche anno dopo, nel 1254, allorché l'esercito pontificio, arroccato in Foggia contro Manfredi, si affrettava a scavare fossati ("exercitus papalis qui erat in Fogia, multum se quotidie roboraret vallando se circumcirca in fossatis") e a cingerli di palizzate, tagliando gli alberi del bosco di Palmula ("intendendo et iam succidere nemus Palmulae civitati Fogiae propinquum"), allo scopo ovviamente di rafforzare le difese; una parte almeno dei fossati si rivelò tuttavia poco profonda quindi inidonea a fermare l'assalto dei nemici ("Cum ergo fossata, quae Fogitani, et illi de papali exercitu fecerant circumcirca, non essent multum elevata)70.

    A questo elenco, abbastanza significativo circa gli umori della maggioranza degli abitanti, bisogna aggiungere la notizia di un'altra ribellione di Foggia verso il 1234-35, quando la città fu condannata a pagare la grossa ammenda di ben 3600 once d'oro71. Poco meno (3400 once d'oro) dovettero invece pagare, forse in relazione a quella medesima circostanza, gli abitanti di Troia72, che si era schierata anch'essa nel 1229 dalla parte di Gregorio IX. La tradizione locale ha dettagliatamente descritto le varie fasi della lotta sostenuta dalla città contro l'imperatore, tornato a fare le sue vendette sui ribelli73. Vi è tuttavia, nonostante l'abbondanza di particolari coloriti, una notevole incertezza circa l'evoluzione degli eventi. Verso il 1233 sarebbe stato ordinato l'abbattimento delle mura74 e, poco dopo, il pagamento dell'ammenda di cui si è detto. La dura punizione dovette certamente prostrare l'economia cittadina, come sembra ricavabile anche dalla povertà della documentazione databile in quegli anni e sino alla scomparsa di Federico75. Sembra anzi che, proprio nel 1250, Troia sia stata abbandonata dai suoi abitanti o che tale sia stato il progetto elaborato dall'imperatore, ma poi non attuato. Tali vicende, per quanto gravi siano state, non impedirono tuttavia che la vita di questa città riprendesse man mano i suoi ritmi consueti, anche se bisognò attendere la morte dell'imperatore per il riscontro di un'effettiva normalità.

    Sia le fonti che la tradizione non hanno invece tramandato nulla intorno a ciò che avvenne realmente a Civitate ed a Casalenovum. Almeno per quest'ultima località (un florido insediamento tra Foggia e San Severo, non lungi dalla fascia pedemontana del Gargano), sembra poco probabile che ci fossero mura da abbattere; la repressione fridericiana dovette quindi limitarsi allo spianamento dei fossati e alla distruzione di eventuali palizzate di legno. Civitate, sita nei pressi del Fortore, è l'insediamento più settentrionale della Capitanata che appare coinvolto in questa catena di ribellioni e di repressioni. Fondata, com'è noto, ai tempi del catepano Basilio Boioannes, era sede episcopale e poi anche centro dell'omonima contea normanna; la sua decadenza fu lenta, ma continua, al punto da risultare abbandonata tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento76.

    Qualche indizio più preciso circa i torbidi che sconvolsero gran parte della Capitanata intorno agli anni Trenta, si hanno in riferimento a San Severo (in origine più noto come San Severino)77, l'insediamento che si era andato sviluppando nella zona settentrionale della Capitanata, a partire dagli inizi del secolo XIII. Sembra dunque che nel giugno del 1229 a San Severo o nei suoi pressi venisse ucciso il baiulo Paolo di Logotheta e che venissero predati gli armenti di proprietà del fisco imperiale78. Al ritorno di Federico, anche San Severo (come le altre città ribelli) dovette arrendersi senza condizioni, "ad mercedem suam" (cioè dell'imperatore).

    Per quanto riguarda questa città, pare che Federico II si sia limitato, nel maggio 1230, a colmare il fossato di recinzione ed a spianare le mura; secondo alcuni79, vi avrebbe costruito un castello o, forse meglio, una rocca; A parte questa ipotesi, che merita ulteriori analisi, la tradizione che attribuisce a Federico la distruzione completa della città non risulta suffragata da alcuna prova sicura. L'unico appiglio in tal senso è costituito da una lettera imperiale del 1238, in risposta alle accuse che a Federico erano state mosse da una delegazione pontificia. Egli dichiarava infatti che il "casale Sancti Severi per iudicium fuit iuste distructum"80, in punizione delle colpe dei suoi abitanti. Non credo però che sia il caso di intendere alla lettera questa espressione, che si inserisce in un contesto molto generico e che, soprattutto, non trova alcun riscontro oggettivo. Tra l'altro, se facciamo un confronto con la tradizione riguardante Troia, si nota che nella serie documentaria di San Severo non vi è alcuna rarefazione sospetta, perché già nel 1231 si trova un importante documento ivi regolarmente rogato81. Più tardi, probabilmente, sono da datare alcuni oscuri cenni all'incendio di oliveti di proprietà della regia Curia e alla distruzione della domus imperiale di Belvedere, di incerta identificazione82. Di sicuro l'imperatore respinse con decisione, in una lettera a Gregorio IX, l'accusa di aver distrutto o profanato le chiese in genere e, quindi, ancor meno quelle di San Severo. Piuttosto, questo borgo venne tolto (come s'è già visto) al monastero di San Pietro di Terra Maggiore in data anteriore al 1236, quando appunto Federico II scrive al papa, per giustificarsi di questa come di altre accuse.

    Un'altra importante città della Capitanata, fiorente sin dai tempi dell'impero romano e prestigiosa sede episcopale sin dall'età paleocristiana, evidenzia nel corso della prima metà del secolo XIII un sempre più accentuato declino: si tratta di Siponto83, che venne certamente danneggiata dalla politica economica promossa da Federico II. In particolare, la città dovette risentire negativamente degli effetti derivanti dal monopolio statale della produzione del sale (a causa dei prezzi fissati d'autorità) e dal declino del commercio, non essendo stata scelta come sede di una delle sette grandi fiere del Regno; a ciò si può aggiungere la sistematica confisca delle terre migliori da parte dell'imperatore, che colpì anche gli Agostiniani del monastero di San Leonardo di Lama Volara. Non vi è dubbio che tali cause siano state più che sufficienti, per innescare ed alimentare dei processi involutivi nella vita di questo insediamento; a ciò si aggiunsero gli effetti negativi di eventi naturali, come ad esempio i terremoti (forse verso la metà del secolo) ed un probabile insabbiamento del porto84.

    La fine di Federico II giunse quasi improvvisamente, all'età di circa 56 anni; la sorte volle che ciò avvenisse proprio in Capitanata. Ai primi di dicembre 1250 l'imperatore si trovava a Foggia, donde si allontanò per recarsi forse a Lucera o per andare a caccia. Fu invece costretto a fermarsi nella piccola città di Fiorentino, sita tra Torremaggiore e Lucera, a causa di un forte attacco di febbre; ivi, il 13 dicembre ("che fo lo dì di Santa Lucia") spirò85. Il suo corpo venne trasportato per la sepoltura a Palermo, evidentemente dopo un sommario trattamento di imbalsamazione. A tal proposito è interessante ricordare che a Foggia la tradizione riconosceva in un piccolo monumento sepolcrale, esistente sino al terremoto del 1731 nella chiesa cosiddetta Palatina, il posto ove erano stati inumati il cuore e le viscere di Federico II86.

    Da quanto si è finora detto, senza affatto presumere di aver esaminato in modo esauriente tutti gli aspetti dell'opera fridericiana, credo che risulti abbastanza chiaramente l'opportunità di una approfondita revisione critica, che sia ugualmente aliena da ipoteche meramente celebrative e da teorizzazioni pregiudizievolmente avverse. Quel che appare certo, in occasione di questo ottavo centenario della nascita di Federico II, è che la poliedricità del personaggio (di sicuro uno dei massimi rappresentanti del mondo medievale) si lascia difficilmente inquadrare nei consueti parametri della storiografia e genera pertanto ambiguità e incertezze nei giudizi. Nel nostro caso, il rapporto tra Federico II e la Capitanata risulta (alla luce degli ultimi studi) ancor più profondo e personale di quanto generalmente non si pensasse. Da questo punto di vista, davvero l'imperatore svevo ha impresso un'orma indelebile nel mondo circostante, quasi un novello demiurgo che riesce a piegare ai suoi voleri le forze stesse della natura e gli animi degli esseri umani. Ai posteri resta il compito di capire nelle loro diverse valenze (politiche, economiche, estetiche ecc.) i risultati conseguiti, negativi o positivi che siano stati, e di inserirli nel grande flusso della storia.