Giuseppe De Matteis
Intervista a Nino Casiglio*
Partendo dal suo primo romanzo, Il conservatore, considera quella sua produzione ancora attuale, per i messaggi in essa contenuti?
"I miei romanzi sono apparsi tra il '72 e l''83. La loro stesura ha dunque un preciso terminus ante quem. Nonostante ogni tentativo di razionalizzare la vita intellettuale, intendendola come un continuum ancorato a valori costanti e precisi, la realtà procede discontinuamente. La "fortuna" pesa più della logica. Quando scrivevo, era possibile ancora aspettarsi la curiosità del nuovo. Non si poteva ancora immaginare una prevalenza dello sforzo di occupazione dello spazio culturale, per cui tendono a sommarsi nella stessa persona il ruolo del critico e quello del narratore, il ruolo del saggista e quello dell'inventore di trame. Il numero delle copie vendute misurava certamente i diritti d'autore, ma non necessariamente la qualità del prodotto.
C'è una distanza di lustri, che pesano però come secoli. L'editoria ha puntato nettamente sul best-seller. Nessuno dice più: Per te ti ciba. La regola è di portare per mano il pubblico dei lettori. Metà accetta per ignoranza ed ignavia; metà per interesse a stare al gioco. Il risultato è che si scrive, si stampa, si legge, si recensisce e si conversa in base ad un solo sottinteso: che i libri non debbano modificare alcun comportamento e che debbano anzi aiutare a restare uguali a sé stessi. Eco insegna: la moltiplicazione dei significati esclude il significato. È una strana applicazione alla cultura del principio secondo cui bisogna che tutto cambi perché nulla cambi.
Quando ho cominciato a scrivere, vivevano ancora Gadda e Silone: presenze per nulla opprimenti o costrittive. Non sono cose di altro secolo?
E vengo a Il conservatore. Quando lo scrissi, mi pareva di cogliere una piega degli eventi che ho sintetizzato dicendo che il mio protagonista era morto in tempo: perché tutte le tautologie tautologizzassero in pace. Non mi pare che gli eventi mi abbiano dato torto. E mi riferisco al fatto che la crisi delle ideologie e il crollo del socialismo reale, invece di avere conseguenze liberatrici, stanno in realtà coltivando la moltiplicazione delle micro-ideologie e delle piccole tirannidi personali. Ma chi è disposto oggi a discutere di questo? Basta sfogliare i giornali per accorgersi che è sistematicamente evitata la discussione ampia delle questioni di importanza comune (la storia del "mattarello" e del "tatarello" insegna), e sono invece dilatate in nome dell'attualità questioni fasulle ed opinioni fasulle di gente fasulla gabellata per portatrice di autorevoli pensamenti. Le tautologie tautologizzano in pace.
Né sono dell'idea che i valori estetici possano essere seriamente intesi come valori chiusi e indipendenti dal flusso vitale. Si può seriamente credere che il Gogol de L'Ispettore Generale non abbia relazione alcuna con la successiva storia russa, con lo stacanovismo o con le vicende tortuose del Bolscioi? E Papà Goriot è solo un caso remotamente possibile di rapporto tra padri e figli? E Madame Bovary è forse solo l'ombra di Flaubert? E Bouvard e Pecuchet non hanno nulla da suggerire ai gestori delle rubriche "Cultura e spettacoli"?
Del protagonista de Il conservatore qualcuno si è chiesto fino a che punto ne condividessi limiti ed esitazioni. Il problema mi sembra mal posto. L'importante è che quando il mio personaggio muore è ben chiaro che non c'è posto per lui nel mondo in cui vive. Come per Socrate, per lasciar stare Cristo. È questo il punto. Il mondo difficilmente rifiuta i difetti, ma è implacabile nel rifiutare le virtù. Il che aiuta a farsi un'idea delle qualità di coloro che meglio e più a lungo sono bene accolti e galleggiano. La mente corre alla scofitta dell'individuo, ma le sfugge che a volte questa è il segno di una sconfitta più grande, della sconfitta del suo ambiente.
Dicendo questo, non ho inteso introdurre alcuna graduatoria di valori estetici, in cui inserire il mio "ritratto di borghese". Ho solo parlato per il diritto che mi viene dall'aver scritto solo perché mi pareva di avere qualcosa da dire.
Durante tutta la sua carriera letteraria lei ha scritto, intercalandoli ai romanzi, diversi racconti: cosa significa per lei adoperare tale forma di narrazione? È un modo per potersi "rivelare" in maniera più aperta ai lettori, descrivendo ricordi d'infanzia (come ne La signorina, La ragazza di Via dei Ciliegi, Le nuvole etc.) o una strada alternativa per fornire ulteriori messaggi, magari sperimentando l'uso del "flusso di coscienza" o del "monologo interiore" (come ne La conoscenza di terzo genere)?
Se dovessi dare una giustificazione semplice dei racconti, direi che i racconti brevi sono in genere anteriori a Il conservatore e sono stati per me il primo esercizio narrativo, in direzioni diverse, intimista e sperimentale. Ma la definizione di "racconti di scuola" si rivela inadeguata. L'autobiografia? Ma io sono stato sempre lontanissimo dal cullare e rimasticare gli eventi della mia esistenza. Quel che conta non è l'autobiografismo, ma la selezione di alcune esperienze personali e il rifiuto di molte altre. M'importava l'infanzia come processo di scoperta in condizioni difficili, non la "mia" infanzia in sé stessa. Se avessi pensato che certe cose accadevano solo a me, avrei evitato di scriverne. Alla selezione delle esperienze si accompagna anche la loro censura. E forse il tentativo di abbandonarmi al flusso di coscienza è stato un modo per sfuggire all'autocensura. Un modo insoddisfacente, devo dire, né sono ancora riuscito a superare integralmente questo che considero il mio principale limite di scrittore, non riuscire a dire "tutto". Mi sorregge tuttavia la convinzione che l'esibizione di sé di alcuni scrittori non è che autocensura rovesciata. La selezione resta condizione essenziale del processo espressivo. Occorre che non si trasformi in autocensura. Ma il rischio è inevitabile.
Quanto alla dimensione del racconto, che oscilla tra limiti amplissimi, dalle poche pagine al romanzo-fiume, sono convinto che non il genere governa la materia narrativa, ma quest'ultima determina l'estensione. Questo, ovviamente, in condizioni fisiologiche, non cioè nel caso che la dimensione venga predeterminata a freddo.
Qual è il rapporto con le tradizioni della sua terra? In Acqua e sale sembrava voler riportare il lettore ad un mondo forse più semplice, fatto di gioie più umili (pur se in un contesto "malato", quale quello dell'Italia pre e post-bellica), mentre in racconti quali Verginità o La promessa, con approcci diversi, manifestava un profondo spirito polemico nei confronti di certe "abitudini", legate ad una concezione molto antiquata della relazione tra uomo e donna.
Non ho mai pensato che la civiltà contadina, dalla quale pure sento di provenire, fosse un bene da conservare sotto vetro. Aveva aspetti di crudeltà, grossolanità e iniquità non accettabili. Ma aveva certamente anche aspetti di straordinaria positività: il senso del lavoro, per esempio, e il rifiuto dei fannulloni, poveri o ricchi che fossero. Il ricco improduttivo era disprezzato non meno della così detta "falce stagliata", del disoccupato per vocazione. E poiché il problema del mutamento sociale è sempre problema di dosaggio del mutamento e non di pura sostituzione di nuovi contesti ai vecchi contesti comportamentali, non la fine della civiltà contadina mi ha turbato, ma la fine delle innegabili virtù contadine. La sostituzione della nozione di "occupato" a quella di lavoratore è una falsificazione orribile della dignità umana: tutti ugualmente produttivi, se occupati, e improduttivi solo se disoccupati. E i medici, i professori? Tutti ugualmente bravi, una volta in cattedra o al capezzale del malato. La civiltà contadina avrebbe dovuto cedere il posto ad una civiltà diversa, in cui tuttavia pur sempre la produttività distinguesse i soggetti e rendesse possibile una democrazia di produttori, un governo di anziani nella grande tribù. Ma quando l'occupato ha sostituito il lavoratore produttivo e la promozione culturale ha coinciso col possesso del "pezzo di carta", la finzione ha preso il sopravvento sulla cruda verità propria della civiltà contadina. Di qui la riduzione della politica e della cultura a puro spettacolo; la riduzione dell'esistenza stessa a spettacolo, compatibile con la persistenza proprio di quegli aspetti rozzi della civiltà contadina che più meritavano di essere cancellati. L'uso dell'automobile con la medesima mentalità con cui un tempo si parcheggiava a stanghe alzate il carro agricolo accanto all'uscio di casa è l'orripilante segno di qualcosa che ha cessato di essere civiltà contadina ed ha perso l'occasione di diventare civiltà senza aggettivi.
Dicendo questo, credo di aver spiegato come la mia attenzione si sia concentrata di volta in volta sulla ristrettezza morale di certi aspetti della civiltà contadina (un'espressione, se vogliamo, alquanto generica, che andrebbe meglio determinata) e sul carattere, prevalentemente politico, del suo distorto processo di trasformazione. La politica dovrebbe essere appunto la predisposizione di corrette condizioni generali di mutamento dei comportamenti. Che cosa sia stata invece è a tutti evidente: un gigantesco sforzo per accaparrare rendite di posizione e per indirizzare ogni più modesto miglioramento del generale tenor di vita all'alimentazione di queste rendite differenziali: gabellate per democrazia ed apertura sociale.
Lei sembra molto interessato ai modi di dire ed ai proverbi della nostra regione (ne La strada francesca e, meno, ne La dama forestiera ne riferisce diversi): il suo è un impegno che si risolverà in un lavoro saggistico o è una pura e semplice curiosità?
Posso escludere in me ogni curiosità di tipo folcloristico. Implicherebbe ricerche sistematiche, da cui mi sento lontanissimo. Ricorrere a detti popolari e dialettali e italianizzarli è per me un'operazione del tutto spontanea ed empirica. Non credo che il meglio sia in questa tradizione, ma che il buono sia anche in questa tradizione. Ho notato che la maggior parte dei detti dialettali trova il suo corrispettivo nel lessico italiano, magari in quello che si definisce antiquato in confronto con l'uso corrente. D'altronde l'attuale linguaggio corrente (per intenderci, quello dei dibattiti televisivi) si presenta così arido, povero, presuntuoso e sostanzialmente meschino, che si avverte il bisogno di utilizzare linguaggi umanamente più vitali. Allargare l'uso del lessico verso l'antiquato e il dialettale è una forma di difesa, una necessità. Immagino Policarpo Petrocchi a rifare oggi il suo dizionario, alle prese col dosaggio dell'uso vivo. Resto dell'idea che il tratto più serio del carattere di D'Annunzio fosse nell'abitudine, apparentemente esibizionistica, di viaggiare accompagnato dal Tommaseo-Bellini in apposita valigetta. Queste note si collegano strettamente al successivo punto 6.
Il filo conduttore che potrebbe unire quasi tutti i racconti de La chiave smarrita sembra essere l'apparenza, l'ambiguità del mondo, l'inconoscibilità della realtà nella quale viviamo: crede accettabile tale interpretazione?
La verità è che La chiave smarrita raccoglie racconti composti in tempi diversi ed uniti soltanto dalla dimensione, media o corta. Già stampati quasi tutti isolatamente, se raccolti in volume correvano meno il rischio di andare dispersi. I miei quattro romanzi, sì, sono nati da alcune mie certezze. Non dico che fossero certezze matematiche. Ma un mondo che espunge il mio "conservatore", delude il mio "contadino", conserva sotto l'apparente scintillìo delle novità modi degni del barocco peggiore, travisa con straordinaria concordia l'idea generosa della mia "dama forestiera"; un mondo così fatto è, almeno per me, evidentemente e sicuramente discutibile. Ma non tutto il mondo ha lo stesso grado di certezza. E che si proceda attraverso approssimazioni e mezze verità è stato riconosciuto da filosofi eminenti. Può un narratore partire da un'ipotesi che non sia quella di un mondo sfuggente ed instabile? Anche le certezze di Manzoni si fermavano dinanzi al guazzabuglio del cuore umano.
Più di quanto non sia stato notato, lei è interessatissimo al linguaggio, alle sue molteplici valenze (culturali, foniche, suggestive, etc.). Può approfondire, con riferimento specifico ai romanzi e a qualche racconto, tale aspetto?
Odio la pagina "ricca" e tendo a quella normalizzata. Mi spiego in questo modo l'insufficiente attenzione dedicata alla struttura linguistica di quanto ho scritto. Eppure ho sentito un critico, che va per la maggiore e che tuttavia non mi è simpatico, dire di me (non scrivere) che nei miei libri c'è sempre la "pagina", anche se non la trama. Infatti nessuno dei miei libri ha un intreccio romanzesco, ma presenta piuttosto sequenze di eventi. Se dunque per ricerca linguistica si intende quel certo lambiccamento espressivo che distingue alcuni nostri contemporanei molto apprezzati (ed escludo dai cultori della pagina scoppiettante proprio Gadda, per il quale sarebbe da fare tutt'altro discorso), niente è più lontano da me della ricerca linguistica, un'espressione che da sola mi fa uscire dai gangheri. Ma se per ricerca linguistica s'intende più semplicemente la ricerca della parola che renda soddisfacentemente ciò che preme per essere detto, allora non vedo come avrei potuto scrivere senza una ricerca linguistica i libri che ho scritti. E mi sembra di aver raggiunto lo scopo a modo mio, accostando e alternando registri diversi, il letterario, il parlato, l'antiquato, il dialettale. Ho tentato più di spaziare che di raggiungere un effetto di brillantezza. Il procedimento si adatta mi sembra a chi come me non è né un patito del vecchio né un patito del nuovo in quanto tali, ed è tutt'altro che scettico pur non facendosi portatore di dommi.
Ha in cantiere qualche "progetto" narrativo? E se la risposta fosse negativa, perché?
Un narratore deve essere in grado non solo di rivivere esperienze passate e di riflettere esperienze direttamente vissute, ma anche di cogliere il trend, di anticipare il futuro, di arrivare a qualcosa che il cronista non è in grado di registrare e lo storico di ravvisare. I Demoni di Dostoevskij anticipa generazioni di nichilisti e di fondamentalisti. Guerra e Pace identifica un flusso di eventi destinato a sommergere ogni artificiale conclusione.
Quando scrissi il Il conservatore era viva e vegeta la distinzione tra una Destra tutta cattiva e una Sinistra in grado di toccare i suoi aderenti con la grazia calvinistica, indipendente da ogni comportamento individuale. Quando scrissi Acqua e sale sembrava ancora obbligatorio compiacersi delle sorti progressive. Quando scrissi La strada francesca poteva ancora apparire paradossale l'ipotesi che per certi riguardi fossimo rimasti a vivere nel Seicento: prima che una miriade di romanzi pseudo-storici sopravvenisse a confondere le carte ed a sostituire l'evocazione gratuita del passato ad ogni confronto col presente. E quando scrissi La dama forestiera cominciavano appena a diffondersi dubbi e correzioni di rotta intorno allo pseudocollettivismo. Confesso che in seguito non sono riuscito a tenere il passo coi tempi ed ho dovuto riconoscere che essi correvano più di me: merito loro o colpa della mia età e degli strumenti di cui dispongo. Avevo avviato un racconto sulla crisi ideologica della Sinistra, La cosa; ma mi sono bloccato quando i fatti si sono rivelati più veloci della mia penna. Avevo immaginato una fase di crisi interiori; non sono riuscito ad antivedere che un gruppetto di solerti funzionari di partito avrebbe celermente avviato la sua sopravvivenza collegando il proprio vuoto ideologico al consimile vuoto dei precedenti oppositori. Né ero riuscito ad antivedere che alcuni accademici, dopo aver costruito le proprie fortune sulla pretesa del più rigoroso ideologismo, si sarebbero subito trasformati in opinionisti ben pagati, indipendentemente dal segno, rimasto costante o divenuto opposto. In breve, mi era sfuggita la possibilità di dover assistere a un consociativismo perenne.
Che senso ha mai mi domando una narrativa che si balocca con improbabili situazioni intimistiche e ignora alcuni fattori essenziali della nostra quotidiana condizione vitale? È solo il supporto di una società che si regge sulle rendite di posizione e che ha assoluto bisogno di distrarre l'attenzione da questo prevalente carattere dell'esistenza attuale. Messa da parte la ricerca dell'eguaglianza, adesso i proprietari di yacht sono indicati come i cattivi dai proprietari di barca a quelli che non hanno né yacht né barca.
Qual è la sua opinione sulla letteratura italiana attuale? Quali autori predilige e quali no? E perché?
La distinzione di una letteratura contemporanea dal suo tronco maggiore mi sembra un'operazione rivolta a giustificare solo uno sdoppiamento di cattedre. La mia formazione intellettuale è avvenuta prevalentemente su storici e filosofi. Come potrei sentirmi legato a quella che per me è solo la produzione editoriale in atto? Le mie preferenze sanno già di vecchio. Il Silone de L'avventura di un povero cristiano; il Primo Levi di Se questo è un uomo e de La tregua, e non degli scritti successivi; lo Sciascia de Gli zii di Sicilia, delle pagine di apertura de Il giorno della civetta, di qualche fulminea divinazione di Todo modo; e Gadda, da cui pure sono lontanissimo, non solo il Gadda maggiore de Il pasticciaccio, ma anche quello minore e precedente delle Novelle dal Ducato in fiamme, che lessi per caso e mi parve una rivelazione. Parlare invece di quel che non mi va o mi lascia indifferente mi sembrerebbe operazione incivile ed anche fastidiosa. Sono tanti a saper scrivere; ma che c'entra questo con la mia esperienza vitale? Che al mondo ci fosse spazio per tutti sapeva bene già Tobia.
Quanto può la cultura oggi, al di là delle istituzioni, incidere nel superamento delle drammatiche dicotomie della nostra regione e dell'intero Sud?
Risponderò con un aneddoto, tra i parecchi che ho in serbo. Chiunque abbia pratica anche modesta dell'attività intellettuale sa bene che ci sono libri che è sufficiente leggere interamente una sola volta e libri da usare invece in maniera ricorrente. Non è una graduatoria di merito, si tratta di prevalenza di funzioni. Niente esclude che si ritorni sul libro già letto o che si legga sistematicamente il libro su cui si ritornerà più volte. Alla seconda di queste categorie apparteneva un libro edito dalla Regione. Lo lessi in biblioteca e poi cercai di procurarmene una copia. Trattandosi di edizione non venale, non potevo far altro che richiederlo all'Assessorato alla Cultura. E nel farlo elencai, con riluttanza, alcuni titoli che giustificavano la richiesta. Dopo qualche mese arrivò la risposta, a firma dell'Assessore. Il nome importa poco, i tipi si equivalgono. Con burbanza burocratica mi si faceva notare quello che già sapevo, che trattavasi di opera non venale, che non si dava ai singoli, ma solo ad Enti ed Istituti riconosciuti, ai quali avrei dovuto rivolgermi per il prestito. Lungi da me l'idea che l'Assessore, chiunque fosse, avesse il dovere di conoscermi. E dopo tutto, chi sono io? Ma che un Assessore alla Cultura ignori i normali procedimenti dell'attività intellettuale, questo no, non è perdonabile. La morale politica non si salva negando un libro utile e non venale a chi può farne buon uso, ma, se mai, evitando di inondare il mercato con diecine di migliaia di stampe gratuite contenenti i discutibili pensamenti di assessori e consiglieri. Aggiungerò, tra parentesi, che il libro mi fu inviato da uno dei suoi autori.
C'è poi il problema della circolazione delle idee. La nostra regione è in realtà un arcipelago di isole culturali, per lo più alla ricerca di collegamenti con le persone più lontane, anziché con le più vicine. Non c'è niente di male nell'apprezzamento dell'ospite culturale lontano. Il male è nel "combinato disposto", per così dire: quando alla ricerca del lontano si accompagna la mancata comunicazione del vicino. Si delinea un ingenuo e stupefacente provincialismo, pari a quello di chi, tutt'al contrario, è pronto a saziarsi di glorie locali. Proviamo a immaginare un italiano convinto che per amare Tolstoj si debba rifiutare Manzoni o, viceversa, che si possa fare a meno di Tolstoj e contentarsi di Giovanni Rosini.
Sulle vicende del giornalismo regionale è bene stendere un velo: i vizi sono gli stessi del giornalismo nazionale, mancano però alcune virtù.
Se in questa diagnosi c'è qualcosa di vero, è facile comprendere che non mi aspetto molto dalla cultura regionale per la soluzione dei nostri problemi. Lo stesso meridionalismo professionale è un fenomeno malinconico.
C'è questo di vero, che non è lecito porre limiti alla Provvidenza. La nostra regione è tanto povera nell'organizzazione culturale quanto segnata storicamente da presenze individuali straordinariamente vive. Quando e i progressi del vivere lo consentono o lo fanno sperare sarà superata la scelta tra emigrazione e sedentarietà, la cultura pugliese potrà liberarsi da quel tanto di provincialistico che spesso l'aduggia. E questa liberazione sarà il segno (non causa) anche del desiderato progresso sociale.
* All'età di 75 anni, il 16 novembre 1995, si è spento Nino Casiglio, considerato dalla critica italiana uno dei più autorevoli narratori di questi ultimi decenni ed una delle figure più rappresentative della cultura pugliese. Era nato a San Severo il 28 maggio 1921 e lì è sempre vissuto come preside nei licei e come studioso attento e scrupoloso di problemi storici, letterari e filosofici, svolgendo anche un'intensa attività giornalistica (si ricordano i suoi brevi ma pungenti interventi su «Il Rosone», «Il Provinciale», «Il Corriere di S. Severo» e su altri noti settimanali della nostra provincia).
Casiglio aveva una formazione di stampo classico: si laureò prima in filosofia a Roma con Pantaleo Carabellese, e successivamente in lettere classiche con Gino Funaioli. Conosceva bene gli autori greci, latini ed italiani; fu anche socio corrispondente della prestigiosa «Accademia Pontaniana» di Napoli. I riconoscimenti della critica non tardarono ad arrivare: nel 1977 vinse il Premio Napoli con il romanzo Acqua e sale (Milano, Rusconi) e, nel 1980, il Premio Scanno con La strada francesca (ivi).
Bibliografia delle opere narrative
N. Casiglio, Preludio alla morte, «Galleria», n. 6, 1964; pp. 298-307 (racconto);
Idem, Qualcosa è accaduto, ivi, (racconto);
Idem, Il terzo genere della conoscenza, ivi, n. 1-2, 1968, pp. 14-19 (racconto);
Idem, Il conservatore, Firenze, 1972;
Idem, Verginità, «Nuova Antologia», n. 2076, dicembre 1973 (racconto);
Idem, Acqua e sale, Milano, 1977;
Idem, La strada francesca, ivi, 1980;
Idem, La dama forestiera, ivi, 1983.
Idem, La chiave smarrita, San Marco in Lamis, 1987.
BIBLIOGRAFIA DELLA CRITICA
Su Il conservatore:
G. Marchetti, «La Gazzetta di Parma», 11/1/1973;
F. Virdia, «La Fiera Letteraria», 21/1/1973;
G. Nogara, «Il Popolo», 9/2/1973;
R. Quadrelli, «Studi Cattolici», n. 114, febbraio 1973;
C. Villa, «Paese Sera», 11/5/1973;
W. Mauro, «Realtà del Mezzogiorno», maggio 1973;
F. De Luca, «Letture», n. 5, 1973;
U. Reale, «Nuovo Mezzogiorno», 6/6/1973;
Idem, «Avanti!», 29/7/1973;
F. Mazzariol, «Osservatore Romano», 23-24/7/1973;
A. Cardone, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 22/6/1974;
G. Piscitelli, «Rassegna di Studi Dauni», n. 1-2, 1975;
G. De Rogatis, «Annuario del Liceo Classico 'N. Fiani' di Torremaggiore», San Severo, 1976, pp. 91-97;
L. Niro, «Il Rosone», gennaio-febbraio 1993.
Su Verginità:
E. Tosto, «Michelangelo», n. 11, 1974.
Su Acqua e sale:
G. Mameli, «L'Unione sarda», 12/3/1977;
V. Vettori, «Notiziario ASCA», 16/3/1977;
A. Altomonte, «Il Tempo», 19/3/1977;
D. Dante, «Ciao 2001», 20/3/1977;
F. Giannessi, «Eco di Bergamo», 30/3/1977;
G. Marchetti, «La Gazzetta di Parma», 5/4/1977;
G. De Rienzo, «Tuttolibri», n. 18, 1977, p. 8;
G. Pandini, «L'Avvenire», 28/6/1977;
E. Bonea, «La Tribuna del Salento», 1/11/977;
F. Mei, «Il Popolo», 7/12/1977;
F. Fano, «Corriere del Giorno», 11/12/1977;
M. Bonanate, «Famiglia Cristiana», 1/1/1978;
M. Dell'Aquila, «Lingua e storia in Puglia», 1977-1978, pp. 125-128;
G. De Matteis, «La Capitanata», gennaio-dicembre, 1979, pp. 7-8;
Idem, «Italianistica», n. 2, 1981, pp. 305-311;
C. Siani, «La parola del popolo», n. 154, novembre-dicembre, 1980, p. 38.
L. Niro, «Qui domani», 30/11/1989.
Su La strada francesca:
A. Cattabiani, «Il settimanale», n. 4, 1980, p. 65;
A. Frasson, «Il Gazzettino di Venezia", 8/2/1980;
Idem, «L'Osservatore politico letterario», giugno 1980;
S.N., "Radiocorriere", 9/2/1980;
F. Gianfranceschi, «Il Tempo», 15/2/1980;
G. Nogara, «Il Messaggero Veneto», 17/2/1980;
Idem, «L'Avvenire», 14/3/1980;
Idem, «Gazzetta del Popolo», 21/3/1980;
G. De Rienzo, «La Stampa», 22/2/1980;
Idem, «Famiglia Cristiana», 25/5/1980;
P. Ruffilli, «Il Resto del Carlino», 23/2/1980;
M. Dell'Aquila, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 28/2/1980;
Idem, «Rapporti», n. 18-19, 1980:
A. Gerardis, «L'informatore librario», marzo 1980;
C. Marabini, «Tuttolibri», n. 216, 1980, p. 9;
G. Marchetti, «La Gazzetta di Parma», 6/3/1980;
G. Pampaloni, «Il Giornale Nuovo», 16/3/1980;
D. Cristalli, «Corriere di San Severo», 20/3/1980;
M. Prisco, «Oggi», n. 12, 21/3/1980, p. 91;
U. Piscopo, «Paese Sera», 25/3/1980;
A. Motta, «Il Manifesto», 29/3/1980;
Idem, «Puglia», n. 33, 10/2/1980;
C. Vecce, "La Provincia di Como", 6/4/1980;
L. Orsini, «Il Mattino», 23/4/1980;
P. A. Paganini, «La Notte», 3/6/1980;
F. Mei, «Il Popolo», 25/6/1980;
G. Floridia, «Vasto domani», luglio 1980;
M. Urrasio, «Nuovo Risveglio», 20/9/1980;
Idem, «Opinioni libere», n. 5-6, 1980;
Idem, «Oggi e domani», n. 10, 1980;
A. Lippo, «Oggi e domani», ibidem;
F. De Dominicis, «Il cittadino di Puglia», 1/10/1980;
S.N. «Libri e riviste d'Italia», n. 355-356, 1979 (ma uscito nel 1980);
W. Lamedica Bellantuono, «Silarus», n. 93, 1981;
A. Oldcorn, «Worl Literature Today» (University of Oklahoma, Norman, Oklahoma), Summer 1981;
S. D'Amaro, «Lingua e storia in Pglia», Fasc. XIV, 1981, pp. 134-135;
G. Custodero, Puglia letteraria del Novecento, Ravenna, 1982.
Su La dama forestiera:
R. Petrera, «Il Secolo d'Italia», 10/4/1983;
Idem, «The Rome Daily», n. 77, 22-28/4/1983;
Idem, «Il Giornale d'Italia», 10/7/1983;
G. Marchetti, «La Gazzetta di Parma», 20/4/1983;
G. Manna, «Il Tempo», 22/4/1983;
A. Perna, «Il Tempo», 30/4/1983;
F. Rossi, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 14/5/1983;
D. Cristalli, «Corriere di San Severo», 27/5/1983;
Idem, «Qui Foggia», 2/6/1983;
V. Iacovino, «Avanti!», 31/5/1983;
G. Custodero, «Puglia Scuola», Maggio 1983;
C. Barbato, «L'Informatore Librario», giugno 1983;
R. Quadrelli, «Prospettiva d'Arte» maggio-giugno 1983;
N. M. Campanozzi, «Corriere di San Severo», 20/6/1983;
G. Floridia, «Vasto domani», n. 5, 1983;
M. Dell'Aquila, Parnaso di Puglia nel '900, Bari, 1983, pp. 158-164;
A. Ventura, «La Capitanata», n. I (nuova serie), 1983, pp. 52-53;
A. De Lorenzi, «Messaggero Veneto», 17/9/1983;
A. M. Recupito, «Gioia», 10/10/1983;
R. Cera, «Opinioni libere», n. 3-4, 1983;
S.N., «Mass Media», n. 5, 1983.
Su La chiave smarrita:
G. Marchetti, «La Gazzetta di Parma», 2/7/1987;
F. Rossi, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 17/7/1987;
S. D'Acunto, «Il Ragguaglio librario», n. 7-8, (luglio-agosto) 1987;
V. Iacovino, «Avanti», 20/8/1987;
M. Coco, «Singolare/Plurale», n. 54, ottobre 1987;
L. P. Aucello, «Il Quotidiano», 2/11/1987;
R. Petrera, «Il Centro», 21/12/1989;
L. Niro, «Puglia», 5/10/95 e 30/11/95.
Interviste:
M. Pomilio, «Il Mattino», 7/12/1977;
W. Lamedica Bellantuono, «Silarus», n. 77, 1978;
A. Motta, «Puglia», n. 8, 24/6/1979;
C. Toscani, «Il Nostro Tempo», 16/3/1980;
D. Aphel, «Il Tempo», 6/4/1980;
F. De Dominicis, «Il cittadino di Puglia», 15/7/1980;
D. Cristalli, «Il Corriere di San Severo», 10/10/1980;
M. Alzona, «Artestampa Liguria», n. 9-10, 1980;
S. D'Acunto, «Oggi e domani» n. 11, novembre 1986;
F. Giuliani, «Qui domani», n. 9, 12/6/1988.
Uno studio completo sulla narrativa di Nino Casiglio è quello di Giuseppe De Matteis, La narrativa di Nino Casiglio, apparso dapprima in «Italianistica» (fino alla Strada francesca), Milano, n. 2, 1981, pp. 305-311 e successivamente in "La Capitanata", gennaio-giugno 1983, pp. 47-64, che comunque non prende in considerazione La chiave smarrita, ossia la raccolta dei racconti, pubblicata nel 1987.
Lo stesso saggio, rivisto ed aggiornato, è riapparso, poi, nel volume di G. De Matteis, Cultura letteraria contemporanea in Capitanata, S. Marco in Lamis, 1984, pp. 63-88, sempre escludendo l'esame critico su La chiave smarrita.